martedì 26 gennaio 2010

Cruciverba (latino)

(cliccate sullo schema del cruciverba per ingrandire l'immagine) Orizzontali: 1. signore. 3. all’uomo. 4. i naviganti ( compl.ogg.). 6. è.
9. Siracusa. 10. avere. 11. a. 12. temere. 14. abitante. 15. ancella.
17. mandare. 19. belva. 20. udire. 22. bella. 24. maestro.
26. delle aste. 28. agnello. 32. padre di famiglia. 33. egli loda.
34. noi mandavamo.

Verticali: 1. dono. 2. ragazzo. 3. uomo. 5. lodare. 7. ma. 8. navigante.
9. scrivere. 13. cavallo. 16. dei giochi. 18. agli abitanti. 21. ruscello.
23. nonno. 25. udite!. 26. asta. 27. acqua. 29. lupo. 30. gioco.
31. essere.

Altrimenti si possono inserire le soluzioni on-line cliccando sotto
http://www.iscgcesare.it/crucilatino.htm

Buon divertimento....ragazzi!

sabato 23 gennaio 2010

Dietro ogni libro emozioni che il tempo non cancella

La biblioteca “De Nobili” ( di Catanzaro) ospita la lezione del professore Federico Procopio sulla figura femminile nella poesia

Dietro ogni libro c'è l'umanità che resiste al tempo. Puoi trovarlo ingiallito, qualche carattere ha perso consistenza, le pagine assottigliate forse. Ma il tuo libro, magari quello del liceo resiste: è dentro te, sulle sue pagine ci sono passate le tue emozioni di adolescente, la tua rabbia, il tuo amore. E ora che sembra tutto dominato dai flussi di bit, lo prendi in mano quel libro. Inizi a leggere i distici scritti in una lingua che qualcuno ancora si ostina a definire “morta”. Morta una lingua vibrante di accenti, di versi ritmati? Morta
una lingua di dei e di eroi? Ti sale una vampata di orgoglio:quei versi li sai ancora tradurre, li sai declinare con gli accenti esatti. E allora ringrazi chi ti ha insegnato a viverla, quella lingua. Chi ti ha insegnato a leggere. Sarà successo questo a tutti i catanzaresi raccolti nei giorni scorsi nella biblioteca “De Nobili” per assistere alla lezione del professore Federico Procopio: il “loro” professore, il professore di papà, di mamma. La sua conversazione su “Personaggi femminili nella poesia drammatica classica, interpreti del pensiero di Euripide, Aristofane,Seneca contro la guerra”, è stata ancora un atto di amore verso i classici. Verso ogni discepolo. Un omaggio alla femminilità vera, fatta di “squisita delicatezza, gentilezza e garbo” anche quando è inserita nella più grande delle tragedie, una tragedia senza tempo e senza un perché: la guerra. Tanto quella cantata negli stasimi - “dove sta il poeta” ha sottolineato Procopio - , che quella che irrompe nell'animo di madre, di moglie, di sovrana, di schiava. Nella sala “Augusto Placanica”, si sono così materializzate figure di cui forse, nessuno parla mai: poetesse come Mirtide che osò gareggiare con Pindaro, Telesilla che armò le donne di Argo per respingere Sparta, Prassilla l'ubriacona. Di loro non restano che pochi frammenti, o i “tributi metrici” dei versi “telesillei”e“prassillei”. Accanto ad esse, le figure sospese tra Teatro e Mito: Alcesti, Ecuba, Medea, Prassitea, Amore, sacrificio, dolcezza, pietà, onore: nelle loro personalità è tutta l'Umana vicenda. Dalla femminilità nella poesia, alla femminilità nel dramma più assurdo, più vero: la guerra. Parola che in ogni parte del mondo, in ogni lingua, ha un suono inquietante, cattivo, duro. Realtà che “è senza un perché”, come la rosa nel pensiero del Silesius, ha sottolineato Federico Procopio. “Leggere, rileggere, imparare a leggere, per poter dire: io so leggere”: La lezione del professor Procopio, da studente l'avrai presa come “metodo”, e invece da adulto si carica di significati nuovi. Suona come un incitamento a riappropriarsi della dimensione umana, come se ogni lettura sia un atto di rispetto verso sé stessi, verso chi quei versi li ha creati nel tempo.
GIOVANNI FAZIA


Articolo tratto da : IL QUOTIDIANO DI CALABRIA di Sabato 23 gennaio 2010

giovedì 21 gennaio 2010

A proposito di farfalle

RAGAZZI: Ecco una nuova tematica da affrontare e discutere sia in narrativa che in poesia...













Dalla quarta di copertina:

" Sono qui per stupirmi", afferma un verso di Goethe...
Bisogna essere ciechi o estremamente aridi se, alla vista di una farfalla, non si prova gioia, fanciullesco incanto, un brivido dello stupore goethiano...
La farfalla, infatti, è qualcosa di particolare, non è propriamente un animale come gli altri, in fondo non è propriamente un animale ma solamente l'ultima, più elevata, festosa e vitalmente importante essenza di un animale...
La farfalla non vive per cibarsi e invecchiare, vive solamente per amare, e per questo è avvolta in un abito mirabile...
Tale significato della farfalla è stato avvertito in tutti i tempi e da tutti i popoli...
È un emblema sia dell'effimero, sia di ciò che dura in eterno...

È un simbolo dell'anima...
Hermann Hesse


Di seguito alcune poesie tratte dal testo di H. Hesse "Farfalle", a cura di Marcello Baraghini, Traduzione di Cristina Scassellati,Illustrazioni di Walter Linsenmaier, Stampa Alternativa, Fiabesca,Terni.
Il volumetto raccoglie racconti, ricordi, poesie, riflessioni, brani tratti da opere diverse.
I disegni riprodotti nelle tavole sono opera di Walter Linsenmaier, oggi considerato uno dei massimi specialisti in disegno, fotografia e pittura di animali, specialmente di insetti. I disegni sono tratti dalla sua opera Insects of the World, edito dalla Mc Graw-Hill Book Company. Walter Linsenmaier vive in Svizzera, dove ha fondato un museo zoologico.

LA FARFALLA NEL VINO
Una farfalla è volata nel mio bicchiere di vino,
ebbra si abbandona alla sua dolce rovina,
remiga senza forze, ora sta per morire;
ecco, il mio dito la solleva via.

Così il mio cuore, accecato dai tuoi occhi,
felice affonda nel denso calice, amore,
pronto a morire, ebbro del tuo incanto
se un cenno di tua mano non compia il mio destino.

FARFALLA AZZURRA
Piccola, azzurra aleggia
una farfalla, il vento la agita,
un brivido di madreperla
scintilla, tremola, trapassa.
Così nello sfavillio d'un momento,
così nel fugace alitare,
vidi la felicità farmi un cenno
scintillare, tremolare, trapassare.
SCRITTO SULLA SABBIA
Ciò che è bello, ciò che incanta,
solo soffio, tremito sia;
ciò che affascina e delizia
grazia senza termine sia:
nube, fiore, bolla aerea,
fuoco fatuo, riso di bimbo,
sguardo di donna allo specchio
e altre cose varie e mirabili
che, svelare, passano via
nello spazio d’un istante,
lieve brezza, soffio di vento:
e noi, tristi, lo sappiamo.


Ciò che dura, ciò che è eterno
non è a noi ugualmente caro:
dura gemma, freddo fuoco,
grevi lampi d’aurei lingotti –
e le stelle innumerabili,
alte e ostili, non somigliano
a noi erranti, non raggiungono
gli abissi fondi delle anime.

Forse l’intima bellezza
(così degna che l’amiamo)
è votata alla rovina:
le sta prossima la morte;
così, i toni della musica
che, sbocciati, già si involano
via scompaiono: sono un soffio,
sono un flusso, sono una caccia,
e in un triste muto alito
se neanche per un palpito
si trattengono, si domano;
ogni nota, appena emessa,
già sparisce e fugge via.

Così il cuore a ciò che svola
e via scorre, a ciò che vive,
è fraterno e sottomesso,
non a ciò che fermo sta.

Presto annoia ciò che dura,
pietra, firmamento e gemma;
a un eterno andare spingono
noi – alito di anime,
come bolle di sapone,
sposi al tempo, che non durano,
cui la stilla sulla rosa,
cui il danzare d’un uccello
o il morire d’una nuvola
trasvolante, o il bagliore
della neve, o arcobaleno,
o farfalla già fuggita,
o la gioia d’un sorriso
che passando non ci sfiori
già significa la festa –
o sgomento. Sì, noi amiamo
chi ci e simile, e lo sappiamo:
il vento scrive sulla sabbia.


Nadia Raimondo,
( afferma...dopo la discussione ed approfondimento di venerdì mattina in classe)
25 Gennaio, ore 19.32
Hermann Hesse oltre ad essere un amabile scrittore, era anche una grande appassionato di farfalle, una passione che va oltre al sapere dire mi piace la farfalla perché è bella. Fin da piccolo coltivò questo amore citandolo in molti dei suoi libri fin a “Farfalle”. Oggi all’uomo manca la sensibilità di percepire la vita nascosta tra sfumature di colori, nella scabrosità di un insetto, nell’erba fresca di rugiada. La natura è vita e ancor più lo è la farfalla. La farfalla è una creatura effimera, è la felicità che viene e se ne va, è la creatura di chi vive con lo grazia di amare. La farfalla ha una bellezza che l’uomo può far divenire sua se sa amarla ed apprezzarla. È immaturo sottovalutare la natura e con essa il suo creatore, è immaturo credere che dietro di essa non ci sia niente, è immaturo anche nascondere la sua dolce essenza di vita. Noi siamo soffocati dal mondo, il mondo non ci appartiene, siamo noi che apparteniamo al mondo e con essa la natura. Noi siamo ciechi di fronte ad essa, se abbiamo la possibilità di vedere allora osserviamo, se abbiamo la possibilità di osservare allora ammiriamo. La farfalla fin dall’antichità è stato l’emblema dell’anima anche se da molto tempo non si riconosce più essa come tale. Abbiamo perso lo stupore, abbiamo perso la voglia di vivere e di apprendere, Goethe affermava :”sono qui per stupirmi”. Lo stupore è nell’ingenuità di un bambino, è nel saper meravigliarsi di un qualcosa dapprima cieco ai nostri occhi. Oggetto valido dello stupore sono le farfalle. Oggi però lo stupore, queste vive meraviglie, trovano le porte chiuse dinanzi ai nostri occhi. L’uomo è cieco lo diceva anche Josè Saramago nel libro Cecità: “ secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che vedono, ciechi che, pur vedendo non vedono. La farfalla è degna di essere VISTA, è un animale che anche se nella sua leggerezza racchiude la dinamicità della vita felice, è modello della trasformazione paragonabile a quella dell’uomo. La farfalla è sempre stata conosciuta, oggi però rischia di scomparire se non fosse per pochi collezionisti che conservano la loro bellezza. Anche Hesse era un collezionista, però risulta essere contraddittorio quando citando una frase di J.J. Rousseau li ritiene pietosi a non stupirsi di loro quando sono in vita. E così dietro lo sguardo amichevole di Hesse nei confronti delle farfalle si cela l’incantata malinconia alla vista di quell’ebbrezza di vita. Allora contempliamoci alla caducità della natura e non ignoriamola, Hesse dice: “tutto il visibile è espressione, tutta la natura è immagine, è linguaggio e colorato geroglifico. Nonostante una scienza della natura molto evoluta, oggi non siamo affatto ben preparati,né educati ad una perfetta osservazione e, rispetto alla natura, ci troviamo piuttosto sul piede di guerra.” La natura è meraviglia, amiamo la vita che sta dinanzi ai nostri occhi.
Assunta Scozzafava V A
25 Gennaio 2010, ore 21.30
Farfalle: sinonimo di vita, libertà e sensibilità. Le farfalle sono il simbolo dell'anima -come afferma Herman Hesse- il simbolo di una vita un po' troppo breve. Come abbiamo visto nella "Fiaba d'amore" dello stesso Herman Hesse, neanche in queste poesie le trasformazioni mancano. I bruchi diventano farfalle. E così ogni cosa si evolve, si modifica, cambia, cresce, non resta mai la stessa. La bellezza dei colori delle ali delle farfalle sono i colori della vivacità dell'infanzia dei bambini. Un'infanzia ricca di stupore, di meraviglia e di sensibilità per le cose più banali ma più belle della vita. Gli adulti hanno perso questa sensibilità, non hanno più gli occhi colmi di meraviglia.
Si dice che una cosa la si apprezza nel momento in cui la si perde, poichè la presenza costante di quella medesima cosa diventa banale, quasi inutile. Herman Hesse dichiara che quando era ancora un fanciullo si dilettava a catturare le farfalle. -Ma..- ci chiederemo -lui cattura le farfalle? Proprio lui che le difende, che le elogia?- probabilmente è spinto dalla voglia di catturare la vita stessa, la quale le farfalle sfoggiano con tanto orgoglio.
E' la voglia d'impersonificare la vita in un animale tanto bello quanto fugace. Non si può rendere la vita immortale, poichè è la vita. Possiamo solo cambiare, trasformarci, incontrare altre vite e crearne altre che completano la nostra, così come fanno le farfalle prima di morire!
Michela Mangone
26 Gennaio, ore 18.12
Herman Hesse parla della farfalla come un animale simbolo della vita, non lo definisce un animale come gli altri, ma la più importante essenza di un animale. Attraverso questo argomento Hesse ci fa capire che nella nostra società tutto viene banalizzato, infatti noi non ci commoviamo più come fanno bambini davanti a qualche nuova “scoperta”, non ci emozioniamo più davanti a un tramonto, guardando il mare, il sole o una farfalla. Fin dall’antichità la farfalla è stata il simbolo dell’anima, segno dell’effimero ma nello stesso tempo dell’eternità. Inoltre la farfalla, come la fenice, è simbolo di metamorfosi, nasce sottoforma di bruco, poi diventa crisalide e infine farfalla, ma è anche la raffigurazione della libertà che mostra attraverso la bellezza delle sue ali ornate da mille colori. “L'uomo come il bruco, vive per terra ma desidera il cielo; patisce la pesantezza del corpo ma sente che il volo gli appartiene. La morte è il prezzo del suo mutamento e la sua vera natura lo spinge a trasformarsi in farfalla. Ciò che per il bruco è la fine del mondo in realtà è una bellissima farfalla. L'uomo come il bruco è una farfalla senza ali” (Mizar)
Gilda Ciacci
26 Gennaio 2010, ore 19.33
spero vada bene :
Herman Hesse scrisse moltissimi libri tra cui Farfalle; dove all’interno si trovano le sue annotazioni e i suoi pensieri nell’andare a scoprire la natura . Egli sceglie questi insetti perché sin da piccolo l’ avevano affascinato ; li definisce come la più importante essenza degli animali . Racconta che l’uomo è sempre stato affascinato nello scoprire i segreti della natura , aveva CURIOSITA’ , cosa che adesso è andata a deteriorarsi! è come se ci rimproverasse dicendo che l’uomo con l’ avvio dell’industrializzazione e della modernizzazione non da più importanza alla natura! È come se fossimo abituati a vedere cose a cui ormai non diamo l’importanza ! . Ad esempio molti potrebbero pensare che le farfalle siano solo degli insetti molto belli e “decorativi” , ma come dire .. inutili perché durano pochi giorni di vita e sembra non abbiano alcuna utilità per l’uomo; ma in realtà non è così ! loro hanno caratteristiche che nessun altro animale ha! Le farfalle sono nate per amare non per nutrirsi e invecchiare , sono il segno dell’ anima !! Hesse le mette a confronto con altri animali dicendo la differenza fra uccelli e farfalle ; affermando che gli uccelli se vengono uccisi , il colore delle loro piume diventa più sfocato mentre ; se muoiono le farfalle i loro colori risplendono come se fossero vive ! non perdono il loro splendore, la loro lucentezza . La farfalla è anche segno di mutazione, di TRASFORMAZIONE!
Essa non è statica; difatti passa dall’ essere bruco all’ essere crisalide e in fine farfalla !
Come fa l’uomo a non essere affascinato nel vedere questa bellezza? Siamo veramente così ciechi come afferma Hesse?!?
Anna Mirabelli
27 Gennaio, ore 15.25

Hermann Hesse tra i suoi numerosi libri ne ha scritto uno che tratta di farfalle, per gridare al mondo che la gente ormai è cieca. Tutti noi non ci soffermiamo più a guardare il sole, gli uccelli che volano liberi, le costellazioni e tutto ciò che ci circonda perché ormai per la maggior parte delle persone cio è diventato banale e scontato. Una volta, quando gli uomini non avevano gli strumenti tecnici necessari per osservare bene la natura, si era più interessati ad essa e si ringraziava un "creatore" per aver fatto ciò; ora questo non succede più.
Hesse si è interessato ed ha voluto trattare in alcuni suoi appunti, piccole note e poesie proprio di farfalle perché fin da piccolo ha avuto la passione per questi piccoli animaletti che definì "simbolo dell’anima". La farfalla, afferma Hesse in una sua poesia, è simbolo di felicità perché non dura tanto ed è fugace. A mio parere è un po’ strano che proprio quest’animale sia il simbolo della felicità perché, non vivendo a lungo, ci vuole far capire che non importa quanto vivi ma come vivi quindi vivere come una farfalla in libertà è essere felici. La farfalla simboleggia anche la trasformazione, pertanto mi viene "spontaneo" pensare ad un possibile collegamento con la fiaba “Le trasformazioni di Pictor” che tratta anch'essa appunto di un cambiamento auspicabile per migliorare. In fondo quale essere migliore poteva scegliere Hesse se non la farfalla che da bruco non molto bello diventa una stupenda farfalla? Nonostante ciò, mi trovo in disaccordo con Hesse perché ci ripete che dobbiamo sempre cambiare mentre io penso che si debba cambiare ma non sempre, e che non per forza il cambiamento, quando c'è, sia positivo.
Un altro punto che non mi convince dell'autore è che si contraddice sempre: perchè criticare e criticarsi, cogliere difetti se poi non si cambia?
Luciana Giulino
27 Gennaio 2010, ore 19.46

Hermann Hesse in questo suo libro ci fa capire, oltre alla sua passione per le farfalle, come il mondo nella società moderna sia cieco o comunque arido; la gente tende ormai a banalizzare tutto, non si sofferma più di fronte a nulla, presa ormai da una vita così frenetica, niente riesce più a meravigliarla. Lo scrittore descrive la farfalla non come un semplice insetto ma come la più importante essenza degli animali; infatti afferma che è come una decorazione, un ornamento, un gioiello della natura; inoltre dice che la farfalla non vive per cibarsi ma per amare e per concepire.Un altro aspetto da prendere in esame è la sua trasformazione; infatti la farfalla non è un essere statico; nasce bruco, diventa crisalide e successivamente farfalla. Siccome hanno una vita così effimera, la si pensa come un essere inutile, invece è, secondo me, la vita più bella che si possa vivere: amare e concepire e non pensare solo a nutrirsi...
Laura Fabietti
01/02/2010, ore18.39
Prof finalmente mi si è apertoo..

Herman Hesse, appassionato di farfalle fin da piccolo, dedica un suo libro interamente a questi piccoli animali. In questo libro Hesse definisce la farfalla come "la più importante essenza degli animali", non come un qualsiasi animale. Infatti ci fa notare una differenza, dice che quando un uccello muore perde il colore delle sue penne, mentre le farfalle no, anzi le varie sfumature di colori delle sue ali si accendono di più, e sembrano più vive. Inoltre ci vuole far capire che l'umanità è cieca, nel senso che vede solo quello che vuole vedere. Ormai non ci soffermiamo più a guardare quello che ci sta intorno,la bellezza del mare, di un tramonto, del sole o di una farfalla, ci sembrano cose banali e inutili e inoltre non abbiamo tempo per sederci a osservare la natura. E qua mi viene in mente il collegamento con il libro "Panchine" di "Beppe Sebaste" dove dice appunto questo. Comunque mi stupisco come Hesse , amante delle farfalle, che lui stesso definisce simbolo dell'anima e soprattutto della libertà, le cattura per vederle morte attaccate a un muro.
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Dal testo:
Pagina 5 del testo "Farfalle"

Tra gli scrittori tedeschi del XX secolo, Hesse è sicuramente quello che ebbe il rapporto più intenso con le farfalle.
Tutta la sua attività è disseminata di momenti di attenzione e di ispirazione dettati dall'incontro con le farfalle: dal suo primo romanzo Scritti e poesie postume di Hermann Lauscher (1930) agli ultimi diari (1955).

Raccoglieva farfalle fin da bambino, e persino nel diario del viaggio in India vi sono annotazioni su questa sua passione. In una lettera del 1926 Hesse scriveva: "Ho sempre avuto un interesse per le farfalle e altre fugaci e caduche meraviglie, mentre non mi sono mai riuscite relazioni durature, solide e, per cosí dire, sicure".



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(....)
Pagina 9 e seguenti, op. citata

A proposito di farfalle

Tutto il visibile è espressione, tutta la natura è immagine, è linguaggio e colorato geroglifico. Nonostante una scienza della natura molto evoluta, oggi non siamo affatto ben preparati, né educati a una corretta osservazione e, rispetto alla natura, ci troviamo piuttosto sul piede di guerra. Altri tempi, forse tutti i tempi e tutte le epoche antecedenti la conquista della terra da parte della tecnica e dell'industria, hanno avuto sensibilità e comprensione per il magico linguaggio dei segni della natura e sapevano decifrarlo in modo piú semplice e innocente di noi. Questa sensibilità non era assolutamente qualcosa di sentimentale: il rapporto sentimentale dell'uomo con la natura è un fatto recente, forse scaturito dalla nostra cattiva coscienza nei confronti della natura.
La percezione per il linguaggio della natura, la percezione della varietà che la vita generatrice mostra ovunque, l'impulso all'interpretazione di questo multiforme linguaggio e, ancor piú, l'impulso a una risposta, tutto questo è antico quanto l'uomo. Il presentimento di una unità occulta e sacra dietro la ricca varietà, di una madre primigenia che sta dietro tutte le nascite, di un creatore che sta dietro tutte le creature, questo mirabile impulso primario dell'uomo verso l'alba del mondo e il mistero delle origini è stato alla radice di ogni arte, e lo è ancor oggi, come sempre. Oggi, appariamo essere infinitamente lontani dall'adorazione della natura in quel senso tutto religioso che è la ricerca di una unità dietro la molteplicità, non ci abbandoniamo volentieri a questo infantile stimolo primario, ci scherziamo sopra quando ce lo rammentano. Ma è probabilmente un errore considerare l'intera odierna nostra umanità come irriverente, incapace di avere una esperienza religiosa della natura.

È solo che, al momento, ci è assai difficile, sí, ci è divenuto quasi impossibile, trascrivere innocentemente la natura in miti e personificare infantilmente il creatore per adorarlo quale un padre, come altre epoche poterono fare. Forse non abbiamo neanche tutti i torti, quando a volte troviamo un po' superficiali e poco serie le manifestazioni dell'antica devozione, e quando crediamo di sospettare che la portentosa e fatale inclinazione della fisica moderna verso la filosofia sia, in fondo, un processo religioso. Ora, se possiamo comportarci come devotamente umili o sfacciatamente superiori, se sorridiamo o ci stupiamo delle antiche forme di fede in una natura animata, il nostro reale rapporto con la natura, persino là dove la conosciamo solo piú come oggetto di sfruttamento, è ancora quello che il bambino ha con la madre; e non si sono aggiunti percorsi nuovi a quei pochi, antichissimi, che possono condurre l'uomo alla beatitudine e alla saggezza. Uno dei quali, il piú facile e infantile, è il cammino dello stupore per la natura, dell'ascolto pieno di trasalimenti del suo linguaggio.

"Sono qui per stupirmi!" afferma un verso di Goethe. Con lo stupore si inizia e anche con lo stupore si termina, e tuttavia non è un cammino vano. Se ammiro un muschio, un cristallo, un fiore, un coleottero dorato, oppure un cielo nuvoloso, un mare con il pacato respiro da gigante del moto ondoso, un'ala di farfalla con le sue ben ordinate nervature cristalline, il taglio e le colorite decorazioni ai suoi bordi, la varietà di caratteri e di ornamenti del disegno e le infinite, morbide, mirabilmente ispirate gradazioni e ombreggiature dei colori – ogni volta che riesco a vivere in sintonia con un frammento di natura grazie all'occhio o a un altro senso, ogni volta che sono da essa attirato e incantato aprendomi per un attimo alla sua esistenza e alla sua rivelazione – allora dimentico, in quello stesso istante, tutto l'avido cieco mondo delle umane ristrettezze, e invece di pensare o di impartire ordini, invece di conquistare o di sfruttare, di combattere o di organizzare, in quell'istante non faccio altro che "stupirmi", come Goethe; e con questo stupore non sono solo divenuto fratello di Goethe e di tutti gli altri poeti e saggi; no, sono anche il fratello di tutto ciò che ammiro e sperimento come mondo vivente; della farfalla, dello scarabeo, della nuvola, del fiume e dei monti: perché lungo il cammino dello stupore sfuggo per un attimo al mondo della divisione ed entro nel mondo dell'unità, dove una cosa, una creatura, dice a ogni altra: "Tat twam asi" ("Questo sei tu").

A volte con malinconia osserviamo l'innocente rapporto verso la natura delle generazioni passate; sí, con invidia; ma non vogliamo prendere il nostro tempo piú seriamente di quanto meriti, e non ci vogliamo neanche lamentare per il fatto che nelle nostre scuole superiori non si insegna a percorrere le piú semplici vie alla saggezza; anzi, per il fatto che vi si insegni invece dello stupore esattamente il contrario: il contare e il misurare invece dell'incantarsi, la freddezza invece della meraviglia, il fisso attaccamento alle singolarità separate invece che l'unione col tutto e con l'Uno. Queste scuole superiori non sono scuole della sapienza, ma scuole del sapere; ma nel loro silenzio presuppongono ciò che non riescono a insegnare; la sapienza del vivere, il sapersi commuovere, il goethiano stupore, e i loro migliori spiriti non conoscono meta piú nobile che avvicinarsi sempre piú a quegli eventi, cosí come Goethe e altri autentici saggi.

Le farfalle, di cui si occupa questo discorso, sono dunque al pari dei fiori, per molti, uno dei frammenti piú amati del creato, un oggetto particolarmente apprezzato e valido di quel famoso stupore, un'occasione particolarmente leggiadra per l'esperienza, il presentimento del grande miracolo, la venerazione della vita. Al pari dei fiori, esse sembrano esser state inventate da gentili, leggiadri e arguti geni; immaginate, con delicata voluttà creatrice, espressamente come decorazione, come ornamento, come gioielli; come piccole, scintillanti opere d'arte e canti di giubilo.



Bisogna essere ciechi o estremamente aridi se alla vista delle farfalle non si prova una gioia, un frammento di fanciullesco incanto, un brivido dello stupore goethiano. E certo ve ne sono buoni motivi. La farfalla, infatti, è un qualcosa di particolare, non è un animale come gli altri, in fondo non è propriamente un animale ma solamente l'ultima, piú elevata, piú festosa e insieme vitalmente importante essenza di un animale. È la forma festosa, nuziale, insieme creativa e caduca di quell'animale che prima era giacente crisalide e, ancor prima che crisalide, affamato bruco. La farfalla non vive per cibarsi e invecchiare, vive solamente per amare e concepire, e per questo è avvolta in un abito mirabile, con ali che sono molte volte piú grandi del suo corpo ed esprimono, nel taglio come nei colori, nelle scaglie e nella peluria, in un linguaggio estremamente vario e raffinato, il mistero del suo esistere, solo per vivere piú intensamente, per attirare con piú magia e seduzione l'altro sesso, per incamminarsi piú splendente verso la festa della procreazione. Tale significato della farfalla e della sua magnificenza è stato avvertito in tutti i tempi e da tutti i popoli, è una rivelazione semplice ed evidente. E ancora piú è divenuta, da festoso amante e splendente metamorfo, un emblema sia dell'effimero come di ciò che dura in eterno, e già in tempi antichi fu per l'uomo paragone e simbolo dell'anima.

Si tenga al contempo presente: la parola Schmetterling non è molto antica, né è divenuta comune a molti dialetti tedeschi. Un tempo, questa strana parola, che esprime nel contempo un qualcosa di sommamente vivo ed energico come anche di grossolano e inadeguato, fu conosciuta e usata solo in Sassonia e forse in Turingia, penetrando nella lingua scritta e divenendo universalmente accettata solo nel diciottesimo secolo. La Germania meridionale e la Svizzera prima non la conoscevano, cosí per farfalla si usava il nome piú antico e piú bello: Fifalter, ma dato che il linguaggio umano, al pari del linguaggio della scrittura sulle ali delle farfalle, non è opera di intelletto o di calcolo, ma dell'impulso creatore e poetico del gioco, la lingua, qui come in tutte le cose che il popolo ama, non si è accontentata di un solo nome, ma gliene ha dati di piú, sí, molti di piú. In Svizzera ancora oggi la farfalla viene chiamata di solito Fifalter, oppure Vogel (Tagvogel, Nachtvogel) oppure Sommervogel.

Se esistono già tanti nomi per le farfalle nel loro complesso (c'è anche Butterfliege, Molkendieb, e una sfilza di altri) ci si immagini quanti nomi, variabili a seconda della provincia e del dialetto, vi sono per le singole specie di farfalle — o fra poco bisognerà dire: vi erano, poiché al pari dei nomi indigeni dei fiori si stanno lentamente estinguendo, e se tra i ragazzi non ci fossero sempre amici e collezionisti di farfalle, questi meravigliosi nomi per la maggior parte sparirebbero via via, come in molti luoghi la ricchezza di varietà di farfalle è in larga parte sparita ed estinta in seguito all'industrializzazione e alla razionalizzazione dell'agricoltura.

E a favore dei collezionisti di farfalle, dei giovani come degli anziani, si può dire anche altro. Il fatto che i collezionisti uccidano le farfalle, le infilzino con gli aghi e le preparino per poterle conservare possibilmente belle e possibilmente durevoli, viene indicato, fin dall'epoca di J.J. Rousseau, spesso con atteggiamento pietistico, come una brutale crudeltà, e nella letteratura tra il 1750 e il 1850 appare la comica, pedantesca figura di quello che può godersi le farfalle solo morte e infilzate con gli spilli. Questo era già allora in parte insensato e lo è oggi quasi del tutto. Naturalmente ci sono, tra i giovani come tra gli adulti, di quei collezionisti che non giungono mai al punto di voler lasciare in pace le farfalle per osservarle vive in libertà. Ma anche i piú rozzi collezionisti contribuiscono a che non ci si scordi delle farfalle, che qua e là, in qualche parte, si conservino i loro antichi meravigliosi nomi e a volte contribuiscono anche a che ci siano ancora le amate farfalle. Infatti, cosí come la passione per la caccia conduce ovunque, alla fine, non soltanto alla caccia, ma anche all'apprendimento e all'esercizio della conservazione, cosí i cacciatori di farfalle si sono naturalmente accorti per primi che grazie alla scomparsa di alcune specie di piante (ad esempio, l'ortica) e ad altri radicali interventi nell'equilibrio naturale, in certe regioni la quantità delle farfalle diminuisce rapidamente fino all'estinzione. E precisamente non nel senso che ci siano un po' meno cavolaie, o altri analoghi nemici di contadini e giardinieri; perché, quando in qualche parte del paesaggio gli uomini si impegnano troppo a organizzare, sono sempre le specie piú nobili, rare e belle a soccombere e ad estinguersi. Il vero amico delle farfalle non solo tratta con attenzione i bruchi, le crisalidi e le uova, ma fa anche quanto possibile per dare nei suoi dintorni possibilità di vivere a ogni specie di farfalle. Io stesso pur non essendo piú, da tanti anni ormai, un collezionista, di quando in quando ho piantato ortiche.

Ogni fanciullo che possegga una collezione di farfalle ha anche sentito parlare delle piú grandi, colorate, meravigliose farfalle che vivono nei paesi caldi, in India, in Brasile, in Madagascar. Qualcuno di loro le ha anche potute ammirare coi suoi occhi, nei musei o presso qualche appassionato, perché oggi queste farfalle esotiche, preparate su cotone, sotto vetro, e spesso assai ben presentate, si possono anche comprare, e infine chi non le ha viste di persona le conosce almeno da immagini. So bene quanto, da giovane, mi sono augurato di poter vedere una volta una particolare farfalla che, stando ai libri, volava in Andalusia nel mese di maggio. E ogni volta che qua e là, da amici o nei musei, riuscivo a vedere qualcuna di queste grandi meraviglie dei tropici, ho sentito in me risvegliarsi di nuovo qualcosa dell'ineffabile incanto della fanciullezza, qualcosa di quell'incanto mozzafiato quale io, ad esempio, provai vedendo per la prima volta la farfalla apollo.

E insieme a questa meraviglia, che racchiude anche malinconia, alla vista di quelle incantevoli farfalle mi avvicinavo anche, nel bel mezzo di una vita non sempre poetica, allo stupore goethiano, vivendo un attimo di rapimento, di contemplazione, di religiosità.

E piú tardi mi capitò addirittura ciò che non avrei mai creduto possibile, che io cioè dovessi viaggiare attraverso grandi mari, scendere sulle calde spiagge straniere, percorrere, penetrando foreste tropicali, fiumi popolati di coccodrilli, e osservare le farfalle tropicali, vive, nel loro ambiente.

Lí si realizzarono molti sogni infantili e, avverandosi, molti di essi hanno perduto sapore. Ma non si affievolí l'incantesimo delle farfalle; questa porticina verso l'indicibile, questo soave e facile sentiero verso lo "stupore" raramente mi ha abbandonato.

Fu a Penang che per la prima volta vidi in volo, vive, delle farfalle tropicali, a Kuala Lumpur per la prima volta ne catturai alcune e a Sumatra vissi un breve periodo, molto bello, sul Batang Hari, dove di notte sentivo rumoreggiare sulla giungla temporali selvaggi e di giorno scorgevo nelle radure della foresta librarsi le farfalle sconosciute, con il loro incredibile oro e verde, con i loro colori da pietre preziose. Nessuna di esse è restata, quando la rivedevo preparata con uno spillo o sottovetro, cosí mirabilmente eccitante, cosí favolosa come lo era stata in libertà, tra le ombre e le luci animate dove ancora viveva, dove i colori delle ali prendevano ancora vita dall'interno, dove al colore si aggiungeva il movimento, quel volo sovente cosí espressivo, sovente cosí misterioso, e dove la meraviglia non era tanto semplicemente abbandonata alla mia curiosità, ma doveva essere a ogni momento furtivamente scoperta e vissuta.

Pure, è stupefacente come si possano conservare bene le farfalle. La maggior parte degli esseri colorati, animali o piante, anche con la migliore preparazione perdono, dopo la morte, il piú della bellezza. Si osservino una volta, se non bastasse l'esempio dei fiori, le piume di un uccello che un cacciatore ha appena ucciso, e si osservi poi il medesimo uccello una mezza giornata piú tardi: c'è sempre, lí davanti, il blu, il giallo, il verde o il rosso, ma su di essi si è steso un velo estraneo, manca qualcosa, splende sempre ma non è piú raggiante, qualcosa che non torna piú si è spento in esso, è finito. Con le farfalle, invece, e con alcuni coleotteri, la differenza è meno forte, la fastosità dei loro colori permane anche con la morte, meglio che in qualsiasi altro animale. Le si può conservare per molto tempo, anche per decenni; devono solo essere protette oltreché dagli insetti anche dalla luce, in particolare da quella del sole.

Anche i popoli della Malesia, nei cui paesi allora viaggiavo, avevano i loro nomi per le farfalle, nomi differenti e tutti belli. E il nome generico, Schmetterling, conserva ogni volta nel suono il ricordo vivido dell'essere alato diviso in due parti, cosí come risuona soprattutto nel termine alto-tedesco Zwiespalter, in Fifalter, nell'italiano "farfalla", eccetera. Di solito i malesi chiamavano le farfalle o kupu kupu o lapa lapa — ambedue i nomi suonavano come un battito d'ali. Questo lapa lapa è qualcosa di egualmente bello e vivido, qualcosa di egualmente espressivo e di inconsciamente creativo come è l'occhio sull'ala di una vanessa bianca, lettera C tracciata sul retro dell'ala color ruggine di una farfalla indigena.

Chi osservi le tavole con le immagini di queste favolose farfalle, possa essere sopraffatto qua e là, e ovunque, dal grande stupore, che è stadio preliminare della conoscenza come della venerazione.

(1935)

venerdì 15 gennaio 2010

Classe V ginnasiale sez.A Laboratorio: analizza ed interpreta

1. Qual è la differenza fra " storia" e "poesia", secondo quanto dichiarato
dal Manzoni ( Lettera a Mr. Chaveut) e da Aristotele ( Poetica)?

2. Evidenziate, sulla scorta di tale formulazione teorica, quali parti vi
sembrano più propriamente "poetiche" in alcuni passi dei capitoli finora
esaminati dei "Promessi Sposi".

3. Chiarite cosa intenda Manzoni per "vero poetico" in un confronto tra l'ode
" Cinque Maggio" ed il Coro dell'Atto IV dell'Adelchi
.

TESTI:

MANZONI: Adelchi, Coro, Atto IV
clicca qui di seguito
http://www.digila.it/public/iisbenini/transfert/Bernazzani/4B%20Mercurio/Materiale/CD_163Adelchi-coro%20atto%20IV.pdf

MANZONI: Ode 5 Maggio
clicca qui di seguito
http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_8/t227.pdf


Nadia Raimondo
18 gennaio 2010
Monsieur Chauvet era un critico che aveva denunciato la mancanza delle unità aristoteliche ne “Il conte di Carmagnola”.
Secondo Aristotele infatti nel classicismo tragico ci dovevano essere tre unità: • Unità di tempo: rappresentazione delle azioni in un unico arco temporale, dalla mattina alla sera. • Unità di luogo: luogo unico nel quale i personaggi agissero o comunicassero; nella tragedia greca spesso alcune azioni vengono riferite sulla scena. • Unità di azione: questa doveva svolgersi in maniera tale che le varie azioni si concatenassero l’una con l’altra dall’inizio alla fine senza che sconvolgere l’ordine dell’insieme. Queste tre unità dovevano garantire la verosimiglianza. Secondo Manzoni se ci fossero tante scene il lettore avrebbe avuto difficoltà ad immedesimarsi nell’azione. Lui accetta infatti solo l’unità di azione e rifiuta le altre due perché perchè una contrazione di eventi svolti in tempi e luoghi diversi. Se il soggetto non è uno storico soffermarsi su lunghe emozioni vanno contro la verosimiglianza. Per questo Manzoni non le rifiuta per fantasticare bensì per garantire il vero secondo quanto lo storico deve fare; le unità costringono lo scrittore ad inventare mentre le emozioni sono i sentimenti più facili che possano esistere nella mente di un uomo. Secondo Manzoni sia la storia sia la poesia devono avere come oggetto il vero soltanto che mentre la storia si occupa di precisare i fatti con obiettività, la poesia invece cerca di scrutare ed intuire i sentimenti e le personalità dei personaggi nella storia. Ciò nonostante esiste una certa affinità tra intimo storico e intimo poeta perché entrambi si occupano dell’approfondimento psicologico della realtà. Il poeta potrà inventare i fatti secondari , ma questa invenzione non dovrà alterare la realtà storica. Ciò permette a Manzi di spostare l’attenzione dai potenti agli umili come nel caso di Renzo e Lucia. Il modo di intendere la poesia e la storia per Manzoni si contraddice alla poetica di Aristotele. Secondo Aristotele infatti, le cause che hanno dato origine alla poesia sono due: l’istinto di imitare e la tendenza di imitare mediante il linguaggio. Procedendo con una serie graduale di perfezionamenti si dette origine alla poesia. Compito del poeta non è scrivere cose realmente accadute bensì cose che potranno accadere. Perciò la differenza tra storico e poeta non è che l’uno scrive in prosa e l’altro scrive in versi ma la vera differenza è che lo storico scrive di fatti realmente accaduti, il poeta di fatti che potranno accadere. A titolo di quanto detto da Aristotele la poesia è qualcosa di più della storia, la poesia si occupa dell’universale, lo storico del particolare. A noi ora non importa chi dei due avesse ragione e non intendo espormi per nessuno dei due, ci importa piuttosto come Manzoni abbia saputo ben bilanciare le due discipline dando quel tocco in più che in una normale opera storiografica, come quella di Erodono, non si nota. Nei “Promessi Sposi” infatti, Manzoni oltre a fungere da storico funge anche da poeta. Lo notiamo nel passo dell’ Addio ai monti o a mia parere nel V capitolo: “L’ autorità del Tasso non serve al suo assunto", signor podestà a tavola riverito; anzi è contro di lei; - riprese a urlare il conte Artilio: - perché quell'uomo erudito, quell'uomo grande, che sapeva a menadito tutte le regole della cavalleria, ha fatto cioè il messo d'Argante, prima d'esporre la sfida ai cavalieri cristiani, chieda licenza al pio Buglione ... - Ma questo - replicava, non meno urlando, il podestà, - questo è un di più, un mero di più, un ornamento poetico, giacché il messaggiero è di sua natura inviolabile, per diritto delle genti, jure gentium: e, senza andar tanto a cercare, lo dice anche il proverbio: ambasciator non porta pena. E, i proverbi, signor conte, sono la sapienza del genere umano. E, non avendo il messaggiero detto nulla in suo proprio nome, ma solamente presentata la sfida in iscritto ... - Ma quando vorrà capire che quel messaggiero era un asino temerario, che non conosceva le prime'? ... ? - Con buona licenza di lor signori, - interruppe don Rodrigo, il quale non avrebbe voluto che la questione andasse troppo avanti?': - rimettiamo la nel padre Cristoforo; e si stia alla sua sentenza. - Bene, benissimo, - disse il conte Attilio, al quale parve cosa molto garbata di far decidere un punto di cavalleria da un cappuccino; mentre il podestà, più infervorato di cuore nella questione, si chetava a stento, e con un certo viso, che pareva volesse dire: ragazzate. Ma, da quel che mi pare d'aver capito, - disse il padre, - non son cose di cui io mi deva intendere. - Solite scuse di modestia di loro padri; - disse don Rodrigo: - ma non mi scapperà. Eh via! sappiam bene che lei non è venuta al mondo col cappuccio in capo, e che il mondo l'ha conosciuto. Via, via: ecco la questione. - Il fatto è questo, - cominciava a gridare il conte Attilio. - Lasciate dir a me, che son neutrale, cugino, - riprese don Rodrigo. - Ecco la storia. Un cavaliere spagnolo manda una sfida a un cavalier milanese: il portatore, non trovando il provocato in casa, consegna il cartello a un fratello del cavaliere; il qual fratello legge la sfida, e in risposta dà alcune bastonate al portatore. Si tratta. .. - Ben date, ben applicate, - gridò il conte Attilio. - Fu una vera ispirazione. - Del demonio, - soggiunse il podestà. - Battere un ambasciatore! persona sacra! Anche lei, padre, mi dirà se questa è azione da cavaliere. - Sì, signore, da cavaliere, - gridò il conte: - e lo lasci dire a me, che devo intendermi di ciò che conviene a un cavaliere. Oh, se fossero stati pugni, sarebbe un'altra faccenda; ma il bastone non isporca le mani a nessuno. Quello che non posso capire è perché le premano tanto le spalle d'un mascalzone. - Chi le ha parlato delle spalle, signor conte mio? Lei mi fa dire spropositi che non mi son mai passati per la mente. Ho parlato del carattere, e non di spalle, io. Parlo sopra tutto del diritto delle genti. Mi dica un poco, di grazia, se i feciali che gli antichi Romani mandavano a intimar le sfide agli altri popoli, chiedevan licenza d'esporre l'ambasciata: e mi trovi un poco uno scrittore che faccia menzione che un feciale sia mai stato bastonato. - Che hanno a far con noi gli ufiziali degli antichi Romani? gente che andava alla buona'", e che, in queste cose, era indietro, indietro. Ma, secondo le leggi della cavalleria moderna, ch'è la vera, dico e sostengo che un messo il quale ardisce di porre in mano a un cavaliere una sfida, senza avergliene chiesta licenza, è un temerario, violabile violabilissimo, bastonabile bastonabilissimo ... - Risponda un poco a questo sillogismo. - Niente, niente, niente. - Ma ascolti, ma ascolti, ma ascolti. Percotere un disarmato è atto proditorio; atqui il messo de quo era senz'arme: ergo - Piano, piano, signor podestà. - Che piano? - Piano, le dico: cosa mi viene a dire? Atto proditorio è ferire uno con la spada, per di dietro, o dargli una schioppettata nella schiena: e, anche per questo, si posson dar certi casi... ma stiamo nella questione. Concedo che questo generalmente possa chiamarsi atto proditorio, ma appoggiar quattro bastonate a un mascalzone! Sarebbe bella che si dovesse dirgli: guarda che ti bastono: come si direbbe a un galantuomo: mano alla spada. E lei, signor dottor riverito, in vece di farmi de' sogghigni, per farmi capire ch'è del mio parere, perché non sostiene le mie ragioni, con la sua buona tabella, per aiutarrni a persuader questo signore? - lo ... - rispose confusetto il dottore: - io godo di questa dotta disputa; e ringrazio il bell'accidente che ha dato occasione a una guerra d'ingegni così graziosa. E poi, a me non compete di dar sentenza: sua signoria illustrissima ha già delegato un giudice ... qui il padre ... - È vero; - disse don Rodrigo: - ma come volete che il giudice parli, quando i litiganti non vogliono stare zitti? - Ammutolisco, - disse il conte Attilio. Il podestà strinse le labbra, e alzò la mano, come in atto di rassegnazione. - Ah sia ringraziato il cielo! A lei, padre, - disse don Rodrigo, con una serietà mezzo canzonatona. - Ho già fatte le mie scuse, col dire che non me n'intendo, - rispose fra Cristoforo, rendendo il bicchiere a un servitore. - Scuse magre: - gridarono i due cugini: - vogliamo la sentenza. - Quand'è così, - riprese il frate, - il mio debole parere sarebbe che non vi fossero né sfide, né portatori, né bastonate. I commensali si guardarono l'un con l'altro maravigliati. - Oh questa è grossa! - disse il conte Attilio. - Mi perdoni, padre, ma è grossa. Si vede che lei non conosce il mondo. - Lui? - disse don Rodrigo: - me lo volete far ridire: lo conosce, cugino mio, quanto voi: non è vero, padre? Dica, dica, se non ha fatta la sua carovana'"? In vece di rispondere a quest'amorevole domanda, il padre disse una parolina in segreto a sé medesimo: "queste vengono a te; ma ricordati, frate, che non sei qui per te, e che tutto ciò che tocca te solo, non entra nel conto". - Sarà, - disse il cugino: - ma il padre ... come si chiama il padre? - Padre Cristoforo - rispose più d'uno. - Ma, padre Cristoforo, padron mio colendissimo, con queste sue massime, lei vorrebbe mandare il mondo sottosopra. Senza sfide! Senza bastonate! Addio il punto d'onore: impunità per tutti i mascalzoni. Per buona sorte che il supposto è impossibile. - Animo, dottore, - scappò fuori don Rodrigo, che voleva sempre più divertire la disputa dai due primi contendenti, - animo, a voi, che, per dar ragione a tutti, siete un uomo'". Vediamo un poco come farete per dar ragione in questo al padre Cristoforo. - In verità, - rispose il dottore, tenendo brandita in aria la forchetta, e rivolgendosi al padre, - in verità io non so intendere come il padre Cristoforo, il quale è insieme il perfetto religioso e l'uomo di mondo, non abbia pensato che la sua sentenza, buona, ottima e di giusto peso sul pulpito, non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalleresca. Ma il padre sa, meglio di me, che ogni cosa è buona a suo luogo; e io credo che, questa volta, abbia voluto cavarsi, con una celia, dall'impiccio di proferire una sentenza. Che si poteva mai rispondere a ragionamenti dedotti da una sapienza così antica, e sempre nuova? Niente: e così fece il nostro frate. Ma don Rodrigo, per voler troncare quella questione, ne venne a suscitare un' altra. - A proposito, - disse, - ho sentito che a Milano correvan voci d'accomodamento". Il lettore sa che in quell'anno si combatteva per la successione al ducato di Mantova, del quale, alla morte di Vincenzo Gonzaga, che non aveva lasciata prole legittima, era entrato in possesso il duca di Nevers, suo parente più prossimo:". Luigi XIII, ossia il cardinale di Richelieu", sosteneva quel principe, suo ben affetto, e naturalizzato francese: Filippo IV, ossia il conte d'Olivares, comunemente chiamato il conte duca, non lo voleva lì, per le stesse ragioni; e gli aveva mosso guerra. Siccome poi quel ducato era feudo dell'impero, così le due parti s'adoperavano, con pratiche, con istanze, con minacce, presso l'imperator Ferdinando II, la prima perché accordasse l'investitura al nuovo duca; la seconda perché gliela negasse, anzi aiutasse a cacciarlo da quello stato. - Non son lontano dal credere, - disse il conte Attilio, - che le cose si possano accomodare. Ho certi indizi ... - Non creda, signor conte, non creda, - interruppe il podestà. - lo, in questo cantuccio, posso saperle le cose; perché il signor castellano spagnolo, che, per sua bontà, mi vuole un po' di bene, e per esser figliuolo d'un creato" del conte duca, è informato d'ogni cosa... - Le dico che a me accade ogni giorno di parlare in Milano con ben altri personaggi; e so di buon luogo che il papa, interessatissimo, com'è, per la pace, ha fatto proposizioni ... - Così dev'essere; la cosa è in regola; sua santità fa il suo dovere; un papa deve sempre metter bene tra i principi cristiani; ma il conte duca ha la sua politica, e... - E, e, e; sa lei, signor mio, come la pensi l'imperatore, in questo momento? Crede lei che non ci sia altro che Mantova a questo mondo? le cose a cui si deve pensare son molte, signor mio. Sa lei, per esempio, fino a che segno l'imperatore possa ora fidarsi di quel suo principe di Valdistano o di Vallistai", o come lo chiamano, e se... - Il nome legittimo in lingua alemanna, - interruppe ancora il podestà, - è Vagliensteino, come l'ho sentito proferir più volte dal nostro signor castellano spagnolo. Ma stia pur di buon animo, che ... - Mi vuole insegnare ... ? - riprendeva il conte; ma don Rodrigo gli dié d'occhio, per fargli intendere che, per amor suo, cessasse di contraddire. Il conte tacque, e il podestà, come un bastimento disimbrogliato da una secca, continuò, a vele gonfie, il corso della sua eloquenza. - Vagliensteino mi dà poco fastidio; perché il conte duca ha l'occhio a tutto, e per tutto; e se Vagliensteino vorrà fare il bell'umore'", saprà ben lui farlo rigar diritto, con le buone, o con le cattive. Ha l'occhio per tutto, dico, e le mani lunghe; e, se ha fisso il chiodo, come l'ha fisso, e giustamente, da quel gran politico che è, che il signor duca di Nivers non metta le radici in Mantova, il signor duca di Nivers non ce le metterà; e il signor cardinale di Riciliù farà un buco nell' acqua. Mi fa pur ridere quel caro signor cardinale, a voler co-zzare con un conte duca, con un Olivares. Dico il vero, che vorrei rinascere di qui a dugent'anni, per sentir cosa diranno i posteri'", di questa bella pretensione. Ci vuoi altro che invidia; testa vuoi esser: e teste come la testa d'un conte duca, ce n'è una sola al mondo. Il conte duca, signori miei, - proseguiva il podestà, sempre col vento in poppa, e un po' maravigliato anche lui di non incontrar mai uno scoglio: - il conte duca è una volpe vecchia, parlando col dovuto rispetto, che farebbe perder la traccia a chi si sia: e, quando accenna a destra, si può esser sicuri che batterà a sinistra: ond'è che nessuno può mai vantarsi di conoscere i suoi disegni; e quegli stessi che devon metterli in esecuzione, quegli stessi che scrivono i dispacci, non ne capiscon niente. lo posso parlare con qualche cognizion di causa; perché quel brav'uomo del signor castellano si degna di trattenersi meco, con qualche confidenza. Il conte duca, viceversa, sa appuntino cosa bolle in pentola di tutte l'altre corti; e tutti que' politiconi (che ce n'è di diritti assai, non si può negare) hanno appena immaginato un disegno, che il conte duca te l'ha già indovinato, con quella sua testa, con quelle sue strade coperte, con que' suoi fili tesi per tutto. Quel pover'uomo del cardinale di Riciliù tenta di qua, fiuta di là, suda, s'ingegna: e poi? quando gli è riuscito di scavare una mina, trova la contrammina già bell' e fatta dal conte duca ... Sa il cielo quando il podestà avrebbe preso terra; ma don Rodrigo, stimolato anche dà versacci che faceva il cugino, si voltò all'improvviso, come se gli venisse un'ispirazione, a un servitore, e gli accennò che portasse un certo fiasco. - Signor podestà, e signori miei! - disse poi: - un brindisi al conte duca; e mi sapranno dire se il vino sia degno del personaggio -. Il podestà rispose con un inchino, nel quale traspariva un sentimento di riconoscenza particolare; perché tutto ciò che si faceva o si diceva in onore del conte duca, lo riteneva in parte come fatto a sé. - Viva mill’anni don Gasparo Guzman, conte d'Olivares, duca di san Lucar, gran privato del re don Filippo il grande, nostro signore! - esclamò, alzando il bicchiere. Privato, chi non lo sapesse, era il termine in uso, a que' tempi, per significare il favorito d'un principe. - Viva mill'anni! - risposer tutti. - Servite il padre, - disse don Rodrigo. - Mi perdoni; - rispose il padre: - ma ho già fatto un disordine'", e non potrei ... - Come! - disse don Rodrigo: - si tratta d'un brindisi al conte duca. Vuoi dunque far credere ch' ella tenga dai navarrini? Così si chiamavano allora, per ischerno, i Francesi, dai principi di Navarra, che avevan cominciato, con Enrico JV89, a regnar sopra di loro. A tale scongiuro, convenne bere. Tutti i commensali proruppero in esclamazioni, e in elogi del vino; fuor che il dottore, il quale, col capo alzato, con gli occhi fissi, con le labbra strette, esprimeva molto più che non avrebbe potuto far con parole. - Che ne dite eh, dottore? - domandò don Rodrigo. Tirato fuor del bicchiere un naso più vermiglio e più lucente di quello, il dottore rispose, battendo con enfasi ogni sillaba: - dico, proferisco, e sentenzio che questo è l'Olivares de' vini: censui, et in eam ivi sententiamì", che un liquor simile non si trova in tutti i ventidue regni del re nostro signore, che Dio guardi: dichiaro e definisco che i pranzi dell'illustrissimo signor don Rodrigo vincono le cene d'Eliogabalo?'; e che la carestia è bandita e confinata in perpetuo da questo palazzo, dove siede e regna la splendidezza. - Ben detto! ben definito! - gridarono, a una voce, i commensali: ma quella parola, carestia, che il dottore aveva buttata fuori a caso, rivolse in un punto tutte le menti a quel tristo soggetto; e tutti parlarono della carestia. Qui andavan tutti d'accordo, almeno nel principale'": ma il fracasso era forse più grande che se ci fosse stato disparere. Parlavan tutti insieme. - Non c'è carestia, - diceva uno: - sono gl'incettatori ... - E i fornai, - diceva un altro: - che nascondono il grano. Impiccarli. - Appunto; impiccarli, senza misericordia. De' buoni processi, - gridava il podestà. _ Che processi? - gridava più forte il conte Attilio: - giustizia sommaria. Pigliarne tre o quattro o cinque o sei, di quelli che, per voce pubblica, son conosciuti come i più ricchi e i più cani, e impiccarli. _ Esempi! esempi! senza esempi non si fa nulla. _ Impiccarli! impiccarli!; e salterà fuori grano da tutte le parti. Chi, passando per una fiera, s'è trovato a goder l'armonia che fa una compagnia di cantambanchi, quando, tra una sonata e l'altra, ognuno accorda il suo stromento, facendolo stridere quanto più può, affine di sentirlo distintamente, in mezzo al rumore degli altri, s'immagini che tale fosse la consonanza di quei, se si può dire, discorsi. S'andava intanto mescendo e rimescendo di quel tal vino; e le lodi di esso venivano, com' era giusto, frammischiate alle sentenze di giurisprudenza economica; sicché le parole che s'udivan più sonore e più frequenti, erano: ambrosia, e impiccarli. Don Rodrigo intanto dava dell' occhiate al solo che stava zitto; e lo vedeva sempre Il fermo, senza dar segno d'impazienza né di fretta, senza far atto che tendesse a ricordare che stava aspettando; ma in aria di non voler andarsene, prima d'essere stato ascoltato. [avrebbe mandato a spasso volentieri, e fatto di meno di quel colloquio; ma congedare un cappuccino, senza avergli dato udienza, non era secondo le regole della sua politica. Poiché la seccatura non si poteva scansare, si risolvette d'affrontarla subito, e di liberarsene; s'alzò da tavola, e seco tutta la rubiconda brigata, senza interrompere il chiasso. Chiesta poi licenza agli ospiti, s'avvicinò, in atto contegnoso, al frate, che s'era subito alzato con gli altri; gli disse: - eccomi à suoi comandi -; e lo condusse in un'altra sala.” De' buoni processi, - gridava il podestà. _ Che processi? - gridava più forte il conte Attilio: - giustizia sommaria. Pigliarne tre o quattro o cinque o sei, di quelli che, per voce pubblica, son conosciuti come i più ricchi e i più cani, e impiccarli. _ Esempi! esempi! senza esempi non si fa nulla. _ Impiccarli! impiccarli!; e salterà fuori grano da tutte le parti. Chi, passando per una fiera, s'è trovato a goder l'armonia che fa una compagnia di cantambanchi, quando, tra una sonata e l'altra, ognuno accorda il suo stromento, facendolo stridere quanto più può, affine di sentirlo distintamente, in mezzo al rumore degli altri, s'immagini che tale fosse la consonanza di quei, se si può dire, discorsi. S'andava intanto mescendo e rimescendo di quel tal vino; e le lodi di esso venivano, com' era giusto, frammischiate alle sentenze di giurisprudenza economica; sicché le parole che s'udivan più sonore e più frequenti, erano: ambrosia, e impiccarli. Don Rodrigo intanto dava dell' occhiate al solo che stava zitto; e lo vedeva sempre lì fermo, senza dar segno d'impazienza né di fretta, senza far atto che tendesse a ricordare che stava aspettando; ma in aria di non voler andarsene, prima d'essere stato ascoltato. L’ avrebbe mandato a spasso volentieri, e fatto di meno di quel colloquio; ma congedare un cappuccino, senza avergli dato udienza, non era secondo le regole della sua politica. Poiché la seccatura non si poteva scansare, si risolvette d'affrontarla subito, e di liberarsene; s'alzò da tavola, e seco tutta la rubiconda brigata, senza interrompere il chiasso. Chiesta poi licenza agli ospiti, s'avvicinò, in atto contegnoso, al frate, che s'era subito alzato con gli altri; gli disse: - eccomi à suoi comandi -; e lo condusse in un'altra sala. Possiamo notare come Manzoni sia anche un poeta nel passo in cui Renzo si arrabbia per il rifiuto di Lucia di sposarsi in segreto, in questo passo abbiamo una serie di emozioni di rabbia che ci indicano l’aspetto psicologico del personaggio. Nell’ Adelchi Manzoni si può definire sia storico perché narra di fatti realmente accaduti durante l’epoca carolingia però abbiamo qualche dubbio su Ermengarda. Nell’atto IV infatti manzoni interpreta la parte di poeta riservandosi un piccolo cantuccio per descrivere l’animo della donna e non di storico. Anche nel “5 Maggio” l’autore non è uno storico infatti la poesia di per sé non narra un fatto storico, perciò risulta vera poesia. L’arte di Manzoni sta nel fatto che ha saputo ben valorizzare il valore poetico delle sue opere facendo emergere dentro la rappresentazione di un fatto la verità, che è il principio dell’intera realtà dell’uomo e della storia.
Nadia Raimondo classe V A

Risposte alle domande su Manzoni
Anna Mirabelli 19/01/2010
Secondo quanto è stato detto da Manzoni,e molto tempo prima, da Aristotele, ci sono delle differenze tra poesia e storia. Storia e poesia hanno una cosa in comune:il vero, cioè il reale accadimento dei fatti, ma lo trattano in modo diverso. Il vero storico indaga gli effetti, e non si cura dei sentimenti con cui i protagonisti hanno vissuto quei fatti, si narra solo dei grandi personaggi che sono statici poiché è lo storico che narra gli eventi.
Il vero poetico, invece, ci fa capire l’animo umano e cerca di immaginare i sentimenti con cui gli individui e i popoli hanno vissuto gli eventi storici, fa parlare i personaggi che possono essere sia grandi uomini politici sia gente comune.
Secondo Manzoni lo scrittore non deve diventare uno storico, ma il suo compito è quello di ricostruire nel modo più vero possibile ciò che fa nascere gli avvenimenti storici, cioè i sentimenti, le speranze. Queste cose allo storico non interessano ma sono la base dei fatti storici. Il poeta quindi deve ricostruire la parte nascosta della storia, cioè l’uomo con le sue debolezze, le sue difficoltà e i suoi insuccessi.
Nei promessi sposi la parte più poetica secondo me è l’”Addio ai Monti”,ma tutto il romanzo può essere definito poesia poiché Manzoni fa parlare i personaggi che sono gente comune e si sofferma sulla loro umanità. Ma non per questo quello che viene raccontato è falso; Manzoni infatti si documentò moltissimo per far si che il racconto fosse vero.
Per quanto riguarda l’ode del 5 Maggio e il VI coro dell’Adelchi entrambi sono delle poesie poiché Manzoni narra dei fatti realmente accaduti ma aggiungendo i sentimenti che i personaggi,in questo caso Napoleone ed Ermengarda, provarono prima di morire. In più per quanto riguarda il 5 Maggio Manzoni non avrebbe mai potuto fare lo storico perché essendo un fatto accaduto nel suo tempo sarebbe stato un cronista dell’epoca.


Veronica Samà: 19/01/2010

Manzoni dimostra l'irragionevolezza delle cosiddette unità aristoteliche di tempo e di luogo. Per quanto ho capito afferma che la storia è l'unica fonte della poesia. In cosa si distinguono le due attività? La storia ci dà dei fatti che non sono conosciuti se non nel loro aspetto esteriore, quello cioè che gli uomini hanno fatto, ma non ci dice i pensieri, i sentimenti che li hanno accompagnati. A QUESTO proposito mi vengono in mente "il 5 maggio" e "l'Adelchi". Il poeta deve completare la storia, la sua invenzione deve accordarsi con la realtà, anzi è un modo per costringerla a venir fuori e a rivelarsi. Possiamo dire che Manzoni fa una sorta di fusione tra la poesia e la storia, perchè la storia racconta la verità oggettiva degli avvenimenti, la poesia può raccontare la verità soggettiva dei singoli personaggi. L'invenzione deve essere limitata all'integrazione del dato storico. Il vero storico è sempre quello che desta maggior interesse. Lo scopo di Manzoni quindi,che si può definire poeta-storico-romanziere, è quello di saper trarre dal vero reale il vero ideale, senza alterare i fatti storici, ma riservandosi uno spazio in cui poter parlare personalmente rendendosi interprete dei sentimenti morali dell'umanità
Veronica;)


Considerazioni:
Secondo me, Alessandro Manzoni esprime una sua concezione di vedere la storia e la poesia in modo contrapposto alla teoria di Aristotele che invece credeva che la poesia dovesse esprimere il verosimile cioè tutto quello che possa accadere. Secondo Manzoni infatti lo storico si deve occupare a raccontare l’evento storico com’è realmente accaduto senza aggiunte personali, mentre il poeta oltre a raccontare l’evento cerca di esprimere i sentimenti dei personaggi nelle varie circostanze. Ho notato che nel quarto capitolo dei Promessi Sposi quando Manzoni parla di Lodovico lo fa in maniera piuttosto poetica, perché durante il duello avuto con un “nobile arrogante” vengono messe in primo piano le sue emozioni: l’odio che prova in quel momento e la rabbia che gli devasta l’anima. Ma non è finita qui perché la conseguenza di questo duello è la morte di un povero innocente, così ancora una volta le sensazioni di Lodovico vengono esternate: decide di cambiare vita, di rendere onore all’uomo morto in duello, decide di farsi frate. Secondo me in questa lunga digressione Manzoni oltre ad essere uno storico è anche un poeta, infatti oltre ad essere raccontati gli eventi accaduti l’autore comunica al lettore le varie emozioni del personaggio. Invece nel “5 maggio” e “l’Adelchi” Manzoni è un poeta a tutti i sensi, infatti pur raccontando fatti realmente accaduti, aggiunge quel tocco in più che solo un poeta sa fare meglio di tutti… i sentimenti.
Michela Mangone 20/01/2010



Queste sono le mie considerazioni a proposito delle domande su Manzoni. Buon divertimento.

La storia è di fondamentale importanza sia nel Manzoni che nel Romanticismo. Per Manzoni, dunque, la storia è importante perché si contrappone al mito, alla leggenda: i miti, come si sa, sono avvenimenti inventati; la storia è realtà, un insieme di vicende realmente accadute. Il Manzoni, per quanto riguarda ciò che è riportato nella Lettera a Mr. Chauvet, sostiene che lo storico si occupa dei fatti, della sequenza degli avvenimenti e di come questi si sono svolti stabilendone cause e conseguenze; il poeta non si distacca dalla storia ma cerca di capire come questa è stata influenzata ed ha influenzato l’animo umano, degli uomini che sono stati i protagonisti della storia: quali sono i sentimenti e le passioni che li hanno portati ad agire in quel modo. Quindi il Manzoni indaga nell’animo di chi ha fatto la storia per ottenere un quadro di come agiscono gli uomini e di cosa (passioni e sentimenti) li spinge a comportarsi in un certo modo. Grazie a un prezioso documento rinvenuto, quale è la Poetica, questa concezione era stata adottata in precedenza anche da Aristotele, filosofo greco vissuto durante il IV secolo a.C.
Sulla base dei capitoli esaminati, la parte secondo me più poetica è “L’Addio ai Monti”, passo lirico di incommensurabile bellezza con il quale il narratore riporta i pensieri e i sentimenti di Lucia quando giunge il momento di salutare le cose a lei care per ritrovarsi in dei luoghi che non aveva mai pensato di esplorare.
Per ciò che riguarda la terza, credo di aver già risposto nella prima soluzione.
Francesco Impellizzeri 20/01/2010

Simona Lanteri
20/01/2010 ore 17.59
Secondo Aristotele “La poesia è attività teoretica e piú elevata della storia, la poesia espone piuttosto una visione del generale, la storia del particolare.”Il Manzoni nella lettera Monsieur Chauvet afferma che se si toglie al poeta il diritto di inventare i fatti, ciò che lo distingue dallo storico è la POESIA. Il poeta ci fa rivivere i momenti di una parte di storia in prima fila, ci descrive come per esempio il Manzoni nell’ode politica “5 Maggio” o il “Coro dell'Atto IV dell'Adelchi” dei momenti che potrebbero sembrare ovvii riesce a descriverli straordinariamente bene attraverso l’arte della poesia;infatti in entrambe le opere viviamo momento per momento la vita dei personaggi, che in un libro di storia non potremmo mai trovare, ecco cosa distingue lo storico dal poeta. Nelle opere prima citate, troviamo personaggi realmente vissuti, Napoleone Bonaparte grande uomo polito che compì straordinarie imprese nel corso della sua vita e sempre per questioni politiche fu costretto all’esilio e dopo qualche tempo arrivò per lui la morte; ecco che entra in gioco Manzoni con il “5 Maggio”,il poeta come ci dice nel testo non scrisse l’ode né nel momento di auge di Napoleone né nel momento in cui cadde in basso, la scrisse solo nel momento in cui arrivò la notizia della sua morte, la scrisse per lo stupore che la notizia ebbe in tutta Europa. Il poeta si sofferma oltre alle tante imprese compiute, nel momento della morte; in analogia con la tragedia “Adelchi” facendoci notare gli ultimi pensieri di quest’uomo morto dal peso dei suoi ricordi e dalle sue aspirazioni che ormai non potrà più compiere , dalla tanta sofferenza vissuta, Napoleone non trova più il senso della sua esistenza muore soffocato dalle cose rimpiante e il Manzoni nelle ultime strofe fa la similitudine con il naufrago che cerca di trovare una via di fuga dalle onde che lo sovrastano ma ormai è troppo tardi e non c’è più possibilità di salvezza. Mediante la sofferenza Napoleone trova la salvezza, la mano salvatrice della provvidenza divina che toccando l’uomo salvifica. Nella tragedia “Adelchi” la protagonista Ermengarda muore sovrastata dal pensiero del ricordo del marito Carlo Magno. Ella ricorda la prima volta in cui vide “Il chomato Sir” e rimpiange quei momenti; “Sgombra, o gentil, dall’ansia/Mentre i terrestri ardori;/Leva all’eterno un candido/ Pensier d’offerta, e muori:/” Manzoni rivolgendosi alla ragazza le dice in qualche maniera di morire felice nel senso di dimenticare tutto ciò che è stato, gli amori terrestri, e che con la morte troverà la pace eterna. L’unica sua colpa è quella di discendere da una rea progenie, “Muori; e la faccia esanime/Si ricomponga in pace;/”


Laura Fabietti 20/01/2010 18.09
Prof non so se va bene :)
"Alessandro Manzoni, come aveva già affermato il filosofo greco Aristotale, differenzia la "storia" dalla "poesia". Questo si riesce a vedere soprattutto grazie alla lettera scritta da Manzoni a monsieur Chavet dove dice che il "vero storico" è colui che indaga sui fatti realmente accaduti e parla di grandi personaggi, invece il "vero poetico" è colui che, racconta episodi realmente accaduti come fa lo storico, ma penetra nei sentimenti dei personaggi, che non sono solo personaggi noti a tutti, ma anche gente comune. A questo proposito Manzoni scrivendo i Promessi sposi unisce lo storico al poeta, storico in quanto si documentò sul periodo da lui narrato, su quello che accadde, poeta in quanto penetra nei sentimenti e nei pensieri più profondi e personali dei personaggi, che in questo caso sono persone comuni. Possiamo dire che questo romanzo storico è tutto poesia, perché Manzoni ci racconta spesso delle emozioni provate dai personaggi, come fa nell'Addio ai monti penetrando nei pensieri di Lucia.
Nell'Ode il "5 Maggio" e nel Coro "Adelchi" Atto IV si può vedere come Manzoni penetra nelle paure e nelle sensazioni di Napoleone e di Ermengarda, entrambi sul punto di morte. "

19 gennaio 2010 19.57
Claudia Ierace ha detto...
Alessandro Manzoni fu un grande scrittore con un immenso amore per la storia. Egli ha una concezione molto diversa tra storia e poesia e racchiuse i suoi pensieri nella lettera a Monsieur Chauvet. Manzoni, facendo riferimento anche alla Poetica di Aristotele, dice che la storia racconta fatti reali di persone veramente esistite senza nessun commento di chi la narra;la poesia è invece un qualcosa di più libero,in cui ci si può esprimere liberamente...Ma senza storia non ci sarebbe poesia. Mi verrebbe da fare un esempio per capire meglio: storia: Cesare combatte contro i Galli; poesia: come Ceasre si sente mentre combatte contro i Galli. Queste definizioni mi fanno pensare a due opere scritte dal manzoni: Il 5 Maggio e l'atto IV dell'adelchi. Entrmbe sono basate su avvenimenti davvero accaduti, ma ciò che li accomuna è il fatto che Manzoni descrive le emozioni dei personaggi.Nel 5 maggio Manzoni descrive lo stato d'animo addolorato di napoleone costretto a vivere nell'isola di sant'Elena nell'ozio, ricorda i suoi avvenimenti e narra lo stupore della gente alla notizia della sua morte;nell' atto IV dell'adelchi manzoni racconta tutto il dolore di Ermengarda, Che sul punto di morte ricorda i giorni felici.
Claudia V A

Gilda Ciacci
20/01/2010 ore 19.36
DIFFERENZA FRA STORICO E POETA :
Manzoni nella lettera a Monsieur Chauvet, tratta della differenza fra testo storico e testo poetico. Ma anche Aristotele, molti anni prima, in una sua opera la Poetica aveva già trattato di questo argomento, dicendo anch'egli che il testo storico viene visto più da un punto di vista oggettivo; dove vengono solo raccontati fatti realmente accaduti. Nel testo poetico si ha una caratteristica in più che lo rende migliore rispetto a quello storico; infatti nel primo si devono "mettere" fatti accaduti ma si può usare anche un pò di fantasia,in cui trovano spazio anche i sentimenti e i pensieri dei personaggi che lo rendono più accattivante e soggettivo.
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Alessandro Manzoni scrisse anche l'Adelchi , per il momento abbiamo solo preso in esame l'Atto IV , coro; parte in cui l'autore si ritrae un piccolo spazio per dare i propri giudizi! Questi versi come il 5 Maggio , oltre a essere poetico è anche storico perchè al suo interno trovano spazio anche accenni a fatti veramente accaduti. Questo Atto viene definito come uno dei momenti più lirici della poesia di Manzoni; dove l'autore esprime i sentimenti dei personaggi. Nella descrizione introduttiva dei primi versi sembra che l'autore compatisca la protagonista [ Ermengarda ] in modo tale che, anche descrivendo solo il suo aspetto fisico, in modo indiretto, con l'uso di una aggettivazione mirata ed efficace, riesce anche a descrivere il suo stato interiore, quello dell'anima. Come ad esempio alla prima strofa , definisce Ermengarda :PIA ! cioè santa , con i capelli raccolti anche se non ben pettinati ! , affannosa sul letto di morte perchè sta x morire , e da qui si può capire il suo stato d'animo ! affannosa perchè pensa al suo amato ! lei muore per la fiamma dell'amore che brucia insieme al ricordo dei giorni in cui ebbe conosciuto Carlo. Come Napoleone nel 5 Maggio , morì per l'ozio, abituato a muoversi da una parte all'altra, a fare grandi imprese, battaglie , e in fine costretto a stare immobile su un'isola desolata ; morti entrambi per una lunga sofferenza ! ma grazie a questo riusciranno a salvarsi grazie all'aiuto di Dio .

Luciana Giulino
20 gennao 2010, ore 19.59
Secondo quanto detto da Manzoni nella lettera indirizzata a Mr Chauvet, la storia ci informa su degli avvenimenti sconosciuti ma senza fornirci notizie su emozioni, sensazioni e sentimenti dei personaggi; lo storico infatti si limita a narrare gli avvenimenti nel modo più oggettivo possibile. Nella poesia, invece, troviamo tutti i sentimenti, le paure, i timori, che hanno accompagnato i protagonisti durante le azioni da loro svolte. Manzoni, infatti, nell'ode "Cinque Maggio" e nell'atto IV dell'Adelchi, oltre a narrare le vicende dei rispettivi protagonisti: Napoleone Bonaparte ed Ermengarda, descrive i pensieri, i timori e le sensazioni che provarono quando erano sul punto di morte.
Per quanto riguarda invece i Promessi Sposi, credo che la parte più poetica sia: l'addio ai monti, in questa parte, infatti, vengono descritte tutte le emozioni che Lucia provava nel lasciare il suo paese.
Luciana classe V A

Annachiara Cubello
20/01/2010, ore 21.04
Basandoci sull'amore sviscerato del Manzoni nei riguardi della storia e basandoci anche su alcuni dei suoi documenti che sono arrivati sino ai nostri giorni,possiamo comprendere il vero significato dellìessere storico e dell'essere poeta.Ad esempio,la definizione secondo Manzoni dello storico è colui il quale ha il compito di riunire gli eventi accaduti nel passato e di descriverli in modo "oggettivo",cercando di non introdurre un prorpio giudizio personale che in qualche modo potrebbe influenzare il lettore,o anche di non inserire dei particolari dettagli su determinati avvenimenti.Una parte del lavore dello storico viene assorbita anche dal poeta che,come quello,ha il compito di narrare gli avvenimenti ma al contrario dello storico,il poeta può avere la libertà di ideare o accescere avvenimenti che lo storico non avrebbe mai potuto inserire e addirittura il poeta racconta gli avvenimenti introducendo propri giudizi,pensieri o anche sensazioni,emozioni e sentimenti.Un esempio per comprendere meglio il significato di queste parole è l'ode politica,scritta da Manzoni e intitolata " Cinque maggio" dedicata alla morte di Napoleone Bonaparte,oppure il coro sulla morte della Princiessa Ermelgalda,estrapolata dall'opera "Adelchi".Questi due personaggi,sono completamente diversi,eppure hanno alcuni punti in comune e uno di questi è proprio la sofferenza:in tutti e due i componimenti,infatti,viene esaltato da Manzoni il tormento del ricordo che affiora nella mente dei due personaggi...affiora il ricordo del passato e dei momenti di massimo splendore che una volta trascorsi non possono tornare più.Questo struggente dolore porta alla morte che Manzoni descrive come l'inizio di una nuova vita,difatti per lui la vita è uno strumento che viene offerto da Dio che permette di realizzarsi e di compiere imprese memorabili che rimarranno nella storia.

Ilaria Gareri
20 gennaio 2010, ore 21.43

Commento...
Per quanto ci dice Manzoni nella lettera scritta per Mr. Chaveut, i poeti, sopratutto i poeti drammatici, scrivendo poesie, non inventavano i personaggi ma " prendevano i loro soggetti dalle tradizioni nazionali " senza modificare alcun passaggio e senza inserire commenti, espressioni o anche inventare un qualcosa a proposito dei loro soggetti. A questo punto, Manzoni si chiede il motivo per cui questi poeti tendevano a non modificare i loro soggetti, ma tendevano a riproporre ciò che gli stessi contemporanei raccontavano. Inoltre era usanza dei Greci considerare storico colui che raccontava gli eventi ma solo dopo averli vissuti di persona, altrimenti non avrebbe avuto alcun senso essere uno storico, e per questo che Manzoni vuole dire che i poeti devono in qualche modo " influenzare " le loro opere. A differenza di Manzoni. invece Aristotele, considera la poetica una cosa superiore alla storia, poichè mentre la poesia è una visione generale, invece la storia, durante la sua narrazione scende di più nel particolare.
Secondo me, la parte del romanzo dei Promessi Sposi più poetica è l'Addio ai monti. Infatti, come hanno detto precedentemente i miei compagni, Manzoni in questa parte del romanzo si concentra su tutte le emozioni che provano i tre protagonisti che si ritrovano a dover lasciare tutti i loro ricordi per andare in un nuovo posto. La cosa che mi ha colpito di più di questa parte è il fatto che i tre personaggi non sanno davvero quale destino gli andrà incontro e soprattutto se riusciranno a fare ritorno nel loro paese, è un pò come nell'Eneide, quando Enea è costretto a partire abbandonando la sua patria, andando incontro a un destino di cui non conosce il futuro.
Per quanto invece riguarda il "vero poetico" di Alessandro Manzoni fra le due opere del IV coro dell'Adelchi e del 5 Maggio, possiamo vedere che Manzoni riesce ad esprimere tutti i suoi sentimenti attraverso i due personaggi, entrambi sul punto di morte. Questa abilità dello scrittore di immedesimarsi perfettamente in ogni sua opera e in ogni suo personaggio, valorizza ancora di più il fatto che Manzoni viene considerato come un alunno di Walter Scott se non anche superiore a quest ultimo.
Ilaria Gareri, V A

Ida Nagero 20/01/2010, ore22.29
Commento sulla differenza tra Vero Poetico e Vero Storico
Beh prof non so se va bene..
"Dalla lettera che Manzoni scrive a Monsieur Chavet, notiamo che lo scrittore ha una concezione molto diversa tra Vero Storico e Vero Poetico.
La Storia indaga su fatti reali in modo oggettivo, cioè essa si basa soltanto su eventi importanti, personaggi conosciuti che vengono descritti sempre nello stesso modo; lo storico si sofferma sugli avvenimenti accaduti, tralasciando quelli che sono i sentimenti dei personaggi.
La Poesia, indaga anch'essa su fatti reali, ma, a differenza della Storia, essa cerca di penetrare nei pensieri dei personaggi ed esprimere i propri sentimenti in modo accurato.
Per esempio, in questi giorni noi abbiamo analizzato due opere del Manzoni, Il 5 Maggio e il IV Atto dell' Adelchi; C'è da dire che queste due opere sono accomunate dalla descrizione degli stati d'animo dei protagonisti. Nell'ode Il Cinque Maggio viene descritto l'angoscia che prova Napoleone a star rinchiuso in una piccola isola; lui che era abituato a compiere grandi azioni, ora si ritrova in un piccolo spazio dove per lui è impossibile vivere. Uno storico avrebbe raccontato la vicenda della morte di napoleone come fatto di cronaca, mentre Manzoni penetra nel suo animo, descrive in modo molto accurato quel'angoscia che prova, ripensando ai momenti di gloria. Anche nell'atto IV dell'Adelchi troviamo quel Vero Poetico: infatti, si parla di persone realmente esistite, ma anche qui, viene descritto il momento della morte di Ermengarda. Anche lei, come Napoleone, prova tristezza ripensando a quei giorni felici insieme a Carlo Magno.
Un altro esempio è quello dei Promessi Sposi; in questo caso Manzoni può essere visto considerato sia come Storico che come Poeta: come storico perchè narra degli eventi che lui stesso ha documentato, ma è anche un poeta in quanto descrive anche i sentimenti dei personaggi."

Marta Costantino21/01/2010, ore 21.13
Secondo Manzoni e, prima di lui secondo Aristotele, vi è una differenza tra “vero storico” e “vero poetico”. Infatti con il “vero storico” lo storico ha il compito di narrare episodi realmente accaduti e di personaggi, sempre non inventati. Invece con il “vero poetico” il poeta, racconta sempre i fatti veramente accaduti oppure leggermente fittizi, ma cerca di penetrare nei sentimenti delle persone che ne sono state protagoniste oppure no.
Manzoni ritiene assurdo l'uso della mitologia perché, secondo lui, invece l'opera d'arte deve essere educativa, cioè deve aiutare l'uomo a conoscere meglio se stesso e il mondo in cui vive. Per cui la letteratura doveva avere come soggetto il "vero". A questi stessi principi, che sono alla base della concezione manzoniana del romanzo storico, si ispirò la composizione dei Promessi sposi. In quest’opera il passo che è, secondo me, particolarmente poetico è alla fine del capitolo VIII cioè il coro dell’”Addio, Monti”perché in quel momento il Manzoni esprime il sentimento di nostalgia di Lucia costretta ad abbandonare il suo piccolo paese natale.
Prendendo in considerazione l’ode “Il 5 Maggio” e il coro dell’atto IV dell’”Adelchi” , secondo me,
il Manzoni si comporta da storico ma contemporaneamente da poeta perché non solo narra avvenimenti reali ma fa filtrare dalle parole i sentimenti dei rispettivi protagonisti, Napoleone ed Ermengarda, entrambi sul punto di morte, consumati dal ricordo degli anni di massimo splendore di uno e dal ricordo degli anni lieti affianco del marito dell’altra.

Morena Leone ha detto...
La differnza tra vero poeta e vero storico

Partendo dal presupposto che Manzoni fu un grande scrittore il quale amante della storia attinse i suoi meravigliosi pensieri da essa; basti pensare al romanzo dei promessi sposi. Come abbiamo potuto notare però Manzoni ha una concezione molto diversa tra storia e poesia come viene anche citato nella lettera di Monsieur Chauvet; infatti dice che la storia racconta gli avvenimenti successi nel passato di persone e fatti veramente accaduti in modo molto generico non basandosi sulle caratteristiche interiori dei personaggi che la compongono; o quanto meno di descrivere o delineare o esporre i sentimenti di essi. Invece la poesia esamina non solo la storia ma include anche i sentimenti e i pensieri dei suoi personaggi; a questo proposito mi viene in mente il 5 maggio e l'atto IV dell'adelchi. Ove Manzoni nel 5 maggio racconta l'avvenuta scomparsa di Napoleone Bonaparte e lo stupore che scatena la notizia tra i popolani, mentre nel adelchi viene narrata la storia di una donna innamorata di suo marito Carlo magno che per questioni politiche sposa la donna e la ripudia anche per queste. Ambedue sono accomunate per i sentimenti che esprimono i due personaggi sul punto di morte agonizati dai pensieri e momenti felici passati. Possiamo definire quindi Manzoni storico-poeta dove non altera la storia ma bensì aggiunge spazio a un suo giudizio personale in modo indiretto

21 gennaio 2010, ore 22.40

domenica 10 gennaio 2010

LE TRASFORMAZIONI DI PICTOR







Questa "Favola d’amore " scritta da Hermann Hesse fu dedicata dall'autore alla cantante mozartiana Ruth Wenger, per la quale era stata scritta nel 1922 poco dopo aver terminato Siddharta : due anni dopo la Wenger divenne la seconda moglie di Hesse.

La fiaba (1) parla di un uomo, Pictor, in cerca della conoscenza, il quale non ancora pronto a comprendere l’esempio dell’uccello-fiore-farfalla in continuo cambiamento, fraintende il senso della felicità e finisce per scambiare la libertà di una perenne trasformazione, di una tensione continua della vita, per una quiete, un incanto magnifico che una volta raggiunto per essere tale dovrà rimanere sempre uguale a sé stesso.
Pictor, trasformato in statico albero, prima si sente soddisfatto e non aspira ad alcun’altra cosa, è appagato e questa condizione gli sembra l’agognata felicità, ma ben presto, guardandosi intorno, si vide distaccato dalla realtà, incapace di transitare, per sempre prigioniero in un’unica forma; sente e cresce in lui un forte desiderio di essere, anche lui allora vuole trasformarsi e crescere perché i sentimenti umani che porta dentro di sé – la solitudine, la paura, l’attrazione per il bello non in sé ma nel divenire, lo spirito di avventura che c’è nella trasformazione, il bisogno di amore, il desiderio – lo spingono nella direzione del sentimento dell’umanizzazione: la capacità di desiderare è il ponte che permette di raggiungere questa consapevolezza, questa crescita interiore.
Crescere o non crescere non è un dilemma limitato all’infanzia, è una scelta che attraversa tutta la nostra vita. Sebbene adulti, proprio perché maturi, fino alla fine ci confrontiamo con la possibilità di lasciare tutto così com’è o di fare un passo avanti e cambiare.
È un tema universale. La trasformazione è crescita ed è cambiamento. Ma come nessuna persona cresce in maniera uguale all’altra, così anche il cambiamento si realizza per ciascuno in maniera diversa.
L’immobilità rappresenta il rifiuto di tutto, il rifiuto del confronto, la inetta solitudine di voler rimanere da soli perché si pensa che da soli si basti a se stessi, è l’egoismo di chi non vuole andare avanti e crescere. La trasformazione si lancia in avanti in un movimento continuo; come per dire che dai propri errori e dalle proprie sofferenze si apprende a poco a poco.
Pictor rappresenta in sintesi l'uomo che nel suo percorso di formazione deve calarsi nella immobilità del reale per apprezzare il valore del mutare, della crescita, del divenire, della trasformazione.

Abbiamo bisogno di uscire dal finto ed apparente sogno del paradiso statico ed eterno che finisce per decretare la nostra morte in quanto spegne ben presto nuovi sogni ed obiettivi.
Così Pictor diventato un albero, è felice per molti anni, ma incompleto. Il rimando all’amore sarà proprio nella decisiva trasformazione, quella nella quale troverà la vera e definitiva felicità.
Ma il richiamo all'amore è prima di tutto un'inclinazione interiore, un potere esclusivo dell'anima, dove verità e parole coincidono e si toccano, è un potere che stabilisce, determina e precisa il modo con cui ci si avvicina e rapporta con l’universo e con gli altri.
A Pictor capita ciò, trova il suo mondo appena scorge la fanciulla, non la conosce molto, non ha trascorso con lei molti giorni “ guardandosi negli occhi” ma ha “sentito”, ha “intuito” una forma più pura di amore e completezza, perché pur se apparentemente paradossale “ catturando i suoi pensieri, le sue parole, la sua essenza ha finito per innamorarsi della sua anima”.
Hermann Hesse ha saputo, come al solito, donarci pagine di saggezza, dove la purezza e semplicità della svolta finale si mescolano con la fantasia della scrittura e dell’ambientazione, in un paradiso visto ed interpretato come non luogo di salvezza assoluta, ma di ricerca di sé e dell’amore, che una volta trovato diventa imprescindibile da noi.
Come a dire che il vero paradiso siamo noi quando riusciamo davvero a trovare un equilibrio non statico ma stabile con il nostro essere e con gli altri!

Dobbiamo fare una scelta, tra la riserva di Kant e la passione di Nietzsche, tra la via del Buddha e quella di Dioniso, tra l’amore di Dio e l’amore del Desiderio. Tra un’idea della libertà e la gestione dei bisogni, tra indipendenza e dipendenza, tra distacco e appartenenza ed unione.
Non si sceglie di amare, ma si può scegliere il proprio modo di amare: amare è essere là, vicino allo straordinario dell’ordinario è offrire, dare, perdonare.
Amare è sposare … le radici degli alberi e la forza dei venti minacciosi.
Buona fortuna nella ricerca, soprattutto ai lupi solitari!

Patrizia

Bellissimo il manoscritto illustrato dallo stesso autore: "ripetutamente Hesse ha richiamato l'attenzione sul fatto che questa favola è scaturita tutta dalle immagini, che quindi ne fanno parte integrante, e che non esiste discrepanza tra la pittura e la sua poesia, perché in entrambe egli non persegue la verità naturalistica ma esclusivamente la verità poetica "(Volker Michels).



(1)In realtà pur se conosciuto questo testo anche con il titolo di "Favola d'amore" per caratterisiche formali, per ambientazione, per motivi ricorrenti, per personaggi e per funzioni lo scritto è da ascrivere al genere letterario della fiaba.

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Anna Mirabelli
Il significato di questa favola secondo me è che non dobbiamo mai rimanere statici ma cambiare sempre. Il protagonista, Pictor, chiede a tutti quelli che incontra dov’è la felicità perché lui vuole assolutamente essere felice. Così appena gli si presenta l’occasione si trasforma in albero. Pictor sente di essere felice ma dopo un po’ di tempo si sente triste poiché tutti gli animali e gli alberi si trasformavano mentre lui rimaneva sempre lo stesso cioè statico. Si sentiva solo ma poi vide una ragazza e se ne innamorò. Lei capì che Pictor era triste ed espresse il desiderio di far parte di quell’albero così da essere una cosa sola con Pictor. Questa favola ci fa capire che la felicità è un attimo e non si può essere felici per sempre. Poi nel corso della vita abbiamo bisogno di cambiare perchè non possiamo essere sempre gli stessi e quando raggiungiamo una meta non dobbiamo smettere di trovarne altre perché altrimenti saremmo piatti. Per trasformarci ed essere completi dobbiamo incontrare persone diverse da noi così da confrontarci e imparare tante cose nuove quindi non ha senso stare con una persona uguale a noi poiché in questo modo non saremo mai completi. Quindi Pictor rappresenta l’uomo comune alla ricerca della felicità. Lo stile con cui è stato scritto è tipico della favola e penso che il messaggio che Hermann Hesse ci ha voluto lasciare sia appunto quello che noi nel corso della vita dobbiamo cambiare sempre. Per quanto mi riguarda la favola mi è piaciuta ma non poi così tanto. Il significato è molto bello e istruttivo ma non mi è piaciuto il modo in cui l’autore ha deciso di narrarlo. Infatti ha usato dei personaggi e dei luoghi troppo fantasiosi poiché appena si inizia a leggere questa favola il protagonista sembra essere un po’ bizzarro visto che vede i fiori che cantano e che si trasformano ma come dimostrano nel Don Chisciotte spesso sotto questa pazzia c’è un significato nascosto molto importante.


Assunta Scozzafava
Commento:le trasformazioni di Pictor
20/01/2010 18.54
Si cambia,si cresce e si è sempre alla ricerca della felicità. ma in questa folle corsa verso un sentimento che non perdura mai,l'uomo perde se stesso. Pictor desidera di diventare un albero e ciò avviene,inizialmente era beato,ma l'anima era incompleta. Pictor non può trasformarsi, è rinchiuso in una corteccia che non sente più sua. Sarà l'amore di una fanciulla a ridestarlo dal "sonno" del cuore,a regalargli una realtà diversa. E' vero, dobbiamo sempre cercare di essere completi,di riflettere con la propria testa senza essere svincolati e dipendere dagli altri poiché alla fine siamo noi,da soli, a prendere delle scelte,alcune delle quali sono decisive per la nostra vita -Ma come- mi chiedo -l'uomo può bastare a se stesso? Non vive forse tra la gente?Non cresce e quindi cambia con essa?- Ma dopotutto non saremo mai davvero completi,neanche con la gente. Ah,come sono deboli e imprevedibili i sentimenti degli uomini. Si dice che per prendere le scelte giuste bisogna ascoltare il cuore,ma molte volte lo si segue poiché è quella cosa che fa più male dentro di noi se non viene accontentata. Dopotutto non sapremmo mai come si raggiunge la felicità e quindi la completezza,se seguendo il cuore o la ragione. Perciò Herman Hesse c'invita ad andare alla ricerca di questo sentimento per quanto breve che sia,c'invita ad una esplorazione continua,poiché l'avventura e il viaggio sono molto più emozionanti della meta stessa!
Assunta Scozzafava VA
Laura Fabietti
20/01/2010 18.09
"Secondo me la morale di questa favola è cambiare, cambiare quando si ha imparato dai propri errori, quando si diventa maturi.
Pictor, il protagonista, trasformandosi in albero pensa di essere felice, e in un primo tempo è così. Ma con il passare del tempo si accorge tutte le cose e gli animali che gli stavano intorno cambiano, si trasformano, e Pictor sent che gli manca questo cambiamento per trovare la felicità, questo avviene solo quando incontra la fanciulla che si fonde e provoca in lui un forte cambiamento e il suo completamento.
Herman Hesse ci vuole dire che, quando si raggiunge una meta non ci si deve fermare, ma andare avanti e che solo cambiando si cresce e ci si completa fino a raggiungere la felicità.
Oltre a questo io ci trovo un'altro messaggio.Secondo me Hesse vuole anche dire che l'uomo è egoista, infatti Pictor si comporta da egoista quando si trasforma in un albero perché pensa solo alla sua felicità, e poi si pente, è egoista quando per trovare la SUA completezza cerca di attrarre la fanciulla e la porta a trasformarsi in un albero insieme a lui, sempre per la SUA felicità."
Laura XD

Nadia Raimondo
21/01/2010, ore 14.50
Commento sulle trasformazioni di Pictor
“Le trasformazioni di Pictor” è una fiaba scritta da Hermann Hesse intorno al 1920. Il protagonista è Pictor, un uomo che andava alla ricerca della felicità e pensando di averla raggiunta si ferma nella sua staticità non capendo che proprio oltre quella barriera avrebbe trovato il suo fulmineo tesoro. Pictor si trasforma così in un albero e il suo non mutare di fronte alla dinamicità degli altri lo distruggeva sempre di più. La felicità è un attimo struggente che ci avvolge e ci lascia in un attimo, è un qualcosa che muta e si trasforma a seconda della nostra personalità. Pictor non capiva che aveva bisogno di qualcun altro per compiere quel cammino, non capiva che credere di essere una totalità significava essere solo una dolce metà di fronte agli altri. Conoscere ciò che non è non significa amalgamarsi con essa, essere una cosa solo ma conoscere quell’entità affine, nello stesso tempo opposta al nostro spirito, e imparare a rispettarla per ciò che è; come dice infatti Hermann Hesse in uno dei suoi romanzi il nostro opposto è il nostro complemento. Una persona che apprende questo ha capito i senso della vita, ha capito che non bisogna mai arrendersi di cercare quest’anima affine e di compiere insieme il viaggio interiore alla ricerca della conoscenza, non arrendiamoci se siamo soli, se ci siamo persi in una valle oscura, non fermiamoci ma andiamo avanti. Non smettiamo mai di crescere, perché crescere è bello, non smettiamo mai di trasformarci perché è umano, non smettiamo mai di essere felici perché non esserlo è avere un’anima divisa. Scrutiamo sempre cosa c’è dietro il tramonto perché proprio dietro l’impossibile sta il possibile, andiamo alla ricerca dello spirito perduti e facciamoci trasportare da essa. Io condivido pienamente il messaggio di Hesse e il modo implicito in cui l’ha fatto emergere, ammiro il suo linguaggio semplice ed a mio parere persuasivo ma non condivido il messaggio che dà dell’essere opposto. Dal mio punto di vista tutti siamo delle metà e noi abbiamo bisogno di trovare quella giusta perché ce n’è solo una. Sono d’accordo come insiste l’autore che un uomo deve imparare a crescere ad apprendere dai suoi sbagli però non sono d’accordo che per realizzare ciò debba conoscere e imparare più animi opposti . Per me la metà è una, anche se la mia personalità cambia sempre di quella ho bisogno; come una “A” se fosse solo una metà sempre della metà “A” avrebbe bisogno e non delle altre lettere a prescindere se muti o no con lo scorrere degli anni. Comprendo che ho una concezione sbagliata però mi farebbe piacere leggere gli altri commenti per conoscere le altre diversità, capire i miei errori e migliorare. Nadia Raimondo


TESTO:

Appena giunto in paradiso Pictor si trovò dinnanzi ad un albero che era insieme uomo e donna. Pictor salutò l’albero con riverenza e chiese: “Sei tu l’albero della vita?”. Ma quando, invece dell’albero, volle rispondergli il serpente, egli si voltò e andò oltre. Era tutt’occhi, ogni cosa gli piaceva moltissimo. Sentiva chiaramente di trovarsi nella patria e alla fonte della vita.
E di nuovo vide un albero, che era insieme sole e luna. Pictor chiese “Sei tu l’albero della vita?”. Il sole annuì, la luna annuì e gli sorrise. Fiori meravigliosi lo guardavano, con una moltitudine di colori e di luminosi sorrisi, con una moltitudine di occhi e di visi. Alcuni annuivano e ridevano, altri annuivano e sorridevano: ebbri tacevano, in se stessi si perdevano, nel loro profumo si fondevano. Un fiore cantò la canzone del lillà, un fiore cantò la profonda ninna-nanna azzurra. Uno dei fiori aveva grandi occhi blu, un altro gli ricordava il primo amore. Uno aveva il profumo del giardino dell’infanzia, il suo dolce profumo risuonava come la voce della mamma. Un altro, ridendo, allungò verso di lui la sua rossa lingua curva. Egli vi leccò, aveva un sapore forte e selvaggio, come di resina e di miele, ma anche come di un bacio di una donna.
Tra tutti questi fiori stava Pictor, pieno di struggimento e di gioia inquieta. Il suo cuore, quasi fosse una campana, batteva forte, batteva tanto; il suo desiderio ardeva verso l’ignoto,verso il magicamente prefigurato.
Pictor scorse un uccello sull’erba posato e di luminosi colori ammantato, di tutti i colori il bell’uccello sembra dotato. Al bell’uccello variopinto egli chiese “Uccello, dove è dunque la felicità?”. “La felicità?” disse il bell’uccello e rise con il suo becco dorato, “la felicita, amico, è ovunque, sui monti e nelle valli, nei fiori e nei cristalli”.
Con queste parole l’uccello spensierato scosse le sue piume, allungò il collo, agitò la coda, socchiuse gli occhi, rise un’ultima volta e poi rimase seduto immobile, seduto fermo nell’erba, ed ecco: l’uccello era diventato un fiore variopinto, le piume si era erano trasformate in foglie, le unghie in radici. Nella gloria dei colori, nella danza e negli splendori, l’uccello si era fatto pianta. Pictor vide questo con meraviglia.
E subito il fiore-uccello cominciò a muovere le sue foglie e i suoi pistilli, già era stanco del suo essere fiore, già non aveva più radici, scuotendosi un po’ si innalzò lentamente e fu una splendente farfalla, che si cullò nell’aria, senza peso, tutta di luce soffusa, splendente nel viso. Pictor spalancò gli occhi dalla meraviglia.
Ma la nuova farfalla, l’allegra variopinta farfalla-fiore-uccello, il luminoso volto colorato volò intorno a Pictor stupefatto, luccicò al sole, scese a terra lieve come un fiocco di neve, si sedette vicino ai piedi di Pictor, respirò dolcemente, tremò un poco con le ali splendenti, ed ecco, si trasformò in un cristallo colorato, da cui si irraggiava una luce rossa. Stupendamente brillava tra erba e piante, come rintocco di campana festante, la rossa pietra preziosa. Ma la sua patria, la profondità della terra, sembrava chiamarla; subito incominciò a rimpicciolirsi e minacciò di scomparire. Allora Pictor, spinto da un anelito incontenibile, si protese verso la pietra che stava svanendo e la tirò a sé. Estasiato, immerse lo sguardo nella sua luce magica, che sembrava irraggiargli nel cuore il presentimento di una piena beatitudine.
All’improvviso, strisciando sul ramo di un albero disseccato, il serpente gli sibilò nell’orecchio: “La pietra si trasforma in quello che vuoi. Presto, dille il tuo desiderio, prima che sia troppo tardi!”.
Pictor si spaventò e temette di vedere svanire la sua fortuna. Rapido disse la parola e si trasformò in un albero. Giacché più di una volta aveva desiderato essere un albero, perché gli alberi gli apparivano così pieni di pace, di forza e di dignità.
Pictor divenne albero. Penetrò con le radici nella terra, si allungò verso l’alto, foglie e rami germogliarono dalle sue membra. Era molto contento. Con fibre assetate succhiò nelle fresche profondità della terra e con le foglie sventolò alto nell’azzurro. Insetti abitavano nella sua scorza, ai suoi piedi abitavano il porcospino e il coniglio, tra i suoi rami gli uccelli.
L’albero Pictor era felice e non contava gli anni che passavano. Passarono molti anni prima che si accorgesse che la sua felicità non era perfetta. Solo lentamente imparò a guardare con occhi d’albero. Finalmente poté vedere, e divenne triste.
Vide infatti che intorno a lui nel paradiso gran parte degli esseri si trasformava assai spesso, che tutto anzi scorreva in un flusso incantato di perenni trasformazioni. Vide fiori diventare pietre preziose o volarsene via come folgoranti colibrì. Vide accanto a sé più di un albero scomparire all’improvviso: uno si era sciolto in fonte, un altro era diventato coccodrillo, un altro ancora nuotava fresco e contento, con grande godimento, come pesce allegro guizzando, nuovi giochi in nuove forme inventando. Elefanti prendevano le veste di rocce, giraffe la forma di fiori.
Lui invece, l’albero Pictor, rimaneva sempre lo stesso, non poteva più trasformarsi. Dal momento in cui capì questo, la sua felicità se ne svanì: cominciò ad invecchiare e assunse sempre più l’aspetto stanco, serio e afflitto, che si può osservare in molti vecchi alberi. Lo si può vedere tutti i giorni anche nei cavalli, negli uccelli, negli uomini e in tutti gli esseri: quando non possiedono il dono della trasformazione, col tempo sprofondano nella tristezza e nell’abbattimento, e perdono ogni bellezza.
Un bel giorno, una fanciulla dai capelli biondi e dalle veste azzurra si perse in quella parte del paradiso. Cantando e ballando la bionda fanciulla correva tra gli alberi e prima di allora non aveva mai pensato di desiderare il dono della trasformazione. Più di una scimmia sapiente sorrise alla suo passaggio, più di un cespuglio l’accarezzò lieve con le sue propaggini, più di un albero fece cadere al suo passaggio un fiore, una noce, una mela, senza che lei vi badasse.
Quando l’albero Pictor scorse la fanciulla, lo prese un grande struggimento, un desiderio di felicità come non gli era ancora mai accaduto. E allo stesso tempo si trovò preso in una profonda meditazione, perche era come se il suo stesso sangue gli gridasse: “Ritorna in te! Ricordati in questa ora di tutta la tua vita, trovane il senso, altrimenti sarà troppo tardi e non ti sarà più data alcuna felicità!”. Ed egli ubbidì. Rammemorò la sua origine, i suoi anni da uomo, il suo cammino verso il paradiso, e in modo particolare quell’istante prima che si facesse albero, quell’istante meraviglioso in cui aveva avuto in mano quella pietra fatata. Allora, quando ogni trasformazione gli era aperta, la vita in lui era stata ardente come non mai! Si ricordò dell’uccello che allora aveva riso e dell’albero con la luna e il sole; lo prese il sospetto che allora avesse perso, avesse dimenticato qualcosa, e che il consiglio del serpente non fosse stato buono.
La fanciulla udì un fruscio tra le foglie dell’albero Pictor, alzò lo sguardo e sentì, con un improvviso dolore al cuore, nuovi pensieri, nuovi desideri, nuovi sogni muoversi dentro di lei.
Attratta dalla forza sconosciuta si sedette sotto l’albero. Esso le appariva solitario, solitario e triste, e in questo bello, commovente e nobile nella sua muta tristezza; era incantata dalla canzone che sussurrava lieve la sua chioma. Si appoggiò al suo tronco ruvido, sentì l’albero rabbrividire profondamente, sentì lo stesso brivido nel proprio cuore. Il suo cuore, era stranamente dolente, nel cielo della sua anima scorrevano nuvole, dai suoi occhi cadevano lentamente pesanti lacrime. Cosa stava succedendo? Perché doveva soffrire così? Perché il suo cuore voleva spaccare il petto e andare a fondersi con lui, con il bel solitario?
L’albero tremò silenzioso fin nelle radici, tanto intensamente raccoglieva in sé ogni forza vitale, proteso verso la fanciulla, in un ardente desiderio di unione. Ohimè, perché si era lasciato raggirare dal serpente per essere confinato così, per sempre, solo in un albero! Oh, come era stato cieco, come era stato stolto! Davvero allora sapeva così poco, davvero era stato così lontano dal segreto della vita? No, anche allora l’aveva oscuramente sentito e presagito – ohimè! e con dolore e profonda comprensione pensò ora all’albero che era fatto di uomo e di donna!
Venne volando un uccello, rosso e verde era l’uccello, ardito e bello, mentre descriveva nel cielo un anello. La fanciulla lo vide volare, vide cadere dal suo becco qualcosa che brillò rosso come sangue, rosso come la brace, e cadde tra le verdi piante, splendette di tanta familiarità tra le verdi piante, il richiamo squillante della sua rossa luce era tanto intenso, che la fanciulla si chinò e sollevò quel rossore. Ed ecco che era un cristallo, un rubino, ed intorno ad esso non vi può essere oscurità.
Non appena la fanciulla ebbe preso la pietra fatata nella sua mano bianca, immediatamente si avverò il sogno che le aveva riempito il cuore. La bella fu presa, svanì e divenne tutt’uno con l’albero, si affacciò dal suo tronco come un robusto giovane ramo che rapido si innalzò verso di lui.
Ora tutto era a posto, il mondo era in ordine, solo ora era stato trovato il paradiso, Pictor non era più un vecchio albero intristito, ora cantava forte Pictoria. Vittoria.
Era trasformato. E poiché questa volta aveva raggiunto la vera, l’eterna trasformazione, perché da una metà era diventato un tutto, da quell’istante poté continuare a trasformarsi, tanto quanto voleva. Incessantemente il flusso fatato del divenire scorreva nelle sue vene, perennemente partecipava della creazione risorgente ad ogni ora.
Divenne capriolo, divenne pesce, divenne uomo e serpente, nuvola e uccello. In ogni forma però era intero, era una “coppia”, aveva in sé luna e sole, uomo e donna, scorreva come fiume gemello per le terre, stava come stella doppia in cielo.

Hermann Hesse "Favola d'amore", traduzione di Katja Tenenbaum, edizioni Fiabesca.